Il transfert nella relazione umana




Transfert e Controtransfert

Nella relazione medico-paziente studiata da Freud, allorché si accingeva a muovere i primi passi nella psicoanalisi, emerse quello che è stato poi definito transfert, termine che deriva dal latino, e che vuol dire letteralmente“trasferimento”.

“Il transfert, in psicoanalisi, è il processo di trasposizione inconsapevole, durante l’analisi e sulla persona dell’analista, di sentimenti e di emozioni che il soggetto ha avvertito in passato nei riguardi di persone importanti della sua infanzia”. (Treccani Enciclopedia online)

Nei fatti il transfert implica la traslazione dei vissuti emozionali dal paziente al terapeuta, il quale, agli occhi del paziente stesso, viene identificato con una figura importante della sua vita di relazione, il marito o la moglie; il padre o la madre; un compagno o una compagna.

Lo psicoanalista finisce, così, per rappresentare quella figura importante di relazione, incarnando su di sé tutti i vissuti processionali ed emotivi del paziente.

L’umana vita di relazione è fortemente intrisa di vissuti emotivi, i cui poli più contrastanti sono rappresentati dai sentimenti di amore e di odio. Motivo per il quale è praticamente impossibile provare totale indifferenza. A meno che non si parli di soggetti assolutamente anaffettivi. Ma, in questo caso, si è già nell’alveo delle patologie. E il problema andrebbe esaminato a monte, a partire dall’analisi dei vissuti di attaccamento materno o dalla figura del caregiver che, in sostituzione della madre, è la persona che più si è presa cura del bambino, nel corso del suo primo anno di vita.

Ne consegue che, per un soggetto psichicamente equilibrato, è pressoché impossibile provare assoluta indifferenza nei confronti di un altro essere umano, con il quale si trovi ad entrare in contatto.

Pertanto il transfert implica sempre una forte scarica di emotività, che può essere positiva e negativa insieme, ed in questo caso si dice ambivalente. Ma può anche essere del tutto positiva, riproponendo vissuti di amore e di benevolenza; o solo ed esclusivamente negativa, generando odio e risentimento nei confronti del terapeuta.

Partendo dalla constatazione che ogni relazione umana è sempre e comunque “terapeutica” ciò che io intendo evidenziare qui è che il transfert, fuori dalla dinamica del lettino psicoanalitico, si presenta come quella relazione biunivoca che investe tutti i rapporti umani, nei quali inconsapevolmente si tende a riproporre lo schema di rapporto che il bambino ha attivato con la propria madre, nel periodo dell’attaccamento.

Bisogna, però, essere consapevoli del fatto che questo schema di relazione, che si tende inevitabilmente a riproporre all’altro, con il quale si instaura un rapporto più o meno profondo di conoscenza e di dialogo, provoca sempre e comunque una reazione da parte dell’interlocutore. E questa reazione può, pertanto, essere modulata dai comportamenti reciproci, e dal modo di porsi nei confronti dell’altro. Le relazioni umane, banalmente, rispondono, infatti, alle più elementari leggi della fisica di Newton, ed in particolare al terzo principio della dinamica, per il quale “ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria”.

Si sa, infatti, proprio dalla psicoanalisi che ogni transfert prevede un controtransfert, perché ogni azione porta già in se stessa il germe delle future risposte che gli atteggiamenti umani generano e producono nei comportamenti emotivi dell’altro.

E anche in questo caso, uscendo dalla relazione analitica a due, si può dedurre che il controtransfert, inteso come risposta emotiva dell’altro alle modalità dell’interlocutore, lo si vive ogni giorno, nella pratica delle normali relazioni umane che vengono quotidianamente intrattenute.

Pertanto, anche i rapporti medico-paziente; docente-discente; genitore-figlio; amici-amanti determinano vissuti di affettività che nelle loro dinamiche interattive possono giovarsi della conoscenza profonda della relazione fondata su transfert e controtransfert.

Comprendere la dinamica di questi fragili equilibri di relazione è fondamentale per la genuinità di una buona analisi dei vissuti personali, ma anche per intrattenere sereni rapporti con gli altri in generale.

La consapevolezza delle dinamiche del transfert e del controtransfert deve poi condurre ad evitare la confusione tra il simbolico rappresentativo ed il reale, come tra ciò che una persona significa nella relazione, alla luce dei propri vissuti emotivi, e ciò che quella persona propriamente è, nella verità dei fatti.

Perché per non scivolare nella trappola delle relazioni malate, è fondamentale ragionare e rapportarsi all’altro secondo il principio di realtà.

La capacità di scorgere l’illusione del simbolico rappresentativo, e di svelare l’effettiva natura umana dell’interlocutore, nei rapporti umani è di vitale importanza per vivere in serenità il presente, senza rimanere infinitamente intrappolati e legati al passato.

Le relazioni sane, infatti, consentono di guardare ai personali vissuti senza impedire di scorgere la realtà, così come essa è, offrendo l’opportunità di immaginare e progettare un futuro possibile.

Tutte le altre, eccedenti, configurazioni sono rischiose e risultano già espressione manifesta di una patologia in atto.

Il Dialogo

Dopo aver chiarito le dinamiche del transfert e del controtransfert, bisognerebbe prendere coscienza del fatto che tutte le relazioni umane, che abbiamo già detto essere portatrici di una forte scarica emotiva, sono anche fondate sul dialogo.

Difatti, perché ci sia un rapporto tra almeno due soggetti è necessario che si stabilisca, tra loro, un canale di comunicazione che è la base ed il fondamento di ogni ulteriore possibile interazione.

Ciò nella consapevolezza che il comportamento umano è sempre e comunque fondato sulla trasmissione di informazioni da un soggetto emittente ad un altro ricevente, che viene detto interlocutore se il messaggio veicolato è di tipo esclusivamente dialogico.

Esiste, però, un dialogo fatto di comunicazione non verbale, costruito non soltanto sulle parole, ma anche sui silenzi e sugli atteggiamenti. Fondato dunque sui fatti e sui comportamenti mantenuti dagli interlocutori.

Difatti, si parla con la voce ma anche con il corpo. La comunicazione non verbale si estende ad un livello sottostante rispetto a quella di tipo evidentemente dialogico, ed è fatta di emozioni e sentimenti che passano dall’uno all’altro interlocutore creando legami affettivi duraturi, come quello che rende familiare, per tutta la vita, il bambino al suo caregiver, o alla figura parentale di riferimento che, nella normalità, è prima di tutto la madre, e solo secondariamente il padre.

I genitori rimangono, in ogni caso, modelli affettivi di ineguagliabile spessore emotivo, tanto che si sostiene con convinzione, nel mondo scientifico, che la deprivazione in tenera età di una delle due figure parentali può compromettere la stabilità emotiva per tutta la vita.

Il transfert nella comunicazione parlata

Il transfert, perciò, esiste tanto nella relazione emotiva quanto in quella dialogata. Perché, con le parole, si trasmettono anche stati d’animo e sentimenti, che coinvolgono emotivamente l’interlocutore.

Conoscere le dinamiche del transfert vuol dire, pertanto, avere già una buona conoscenza di base di tipo relazionale, che deve muovere la convinzione che, atteggiamenti adottati, comportamenti posti in essere e parole pronunciate entrano a fare parte di necessità di una relazione, una volta che siano divenuti fatti e accadimenti reali.

Ecco il motivo per il quale le persone sagge pensano tanto prima di parlare, e misurano ogni loro gesto e comportamento nella convinzione che essi abbiano il peso psicologico di un macigno scagliato con forza verso l’altro, una volta che si sia dato corso all’azione.

Una ferita emotiva si può rimarginare, ma avrà sempre il senso di un coccio rotto e aggiustato. Ed il suo peso nei ricordi e nei vissuti sarà incancellabile.

Ogni relazione che non funziona è un trauma per la psiche. Ed ogni trauma, ci ha insegnato Freud, può essere curato, ma non cancellato del tutto come se non fosse mai esistito.

Proprio come un taglio, chiuso con i punti, rimane cicatrice visibile a memoria dell’incidente accaduto.

L’altro è un vaso di cristallo

L’altro dovrebbe, pertanto, essere avvicinato con estrema cura e cautela. Ciascuno si dovrebbe muovere nelle relazioni umane come se fosse in una cristalleria. In un negozio di cristalli non si può agire come elefanti. Bisogna essere delicati e accorti, per evitare di distruggere le cose belle, ma estremamente fragili, che si hanno attorno.

Purtroppo, spesso, ci si comporta invece proprio come animali al pascolo. E si distruggono per sempre rapporti e relazioni con le persone che la vita ha fatto incrociare.

L’altro è un dono.

E per queste ragioni va maneggiato con cura.

Prendersi cura

Essere abili nelle relazioni umane implica, perciò, la capacità del “prendersi cura”.

Se l’altro è un dono che la vita ha fatto per consolare la solitudine dello stare al mondo, è necessario che ci si prenda cura reciprocamente, facendosi carico del dolore e dello stare bene di tutti.

Perché il malessere di uno solo, all’interno di un contesto sociale, si ritorce inevitabilmente contro la collettività, generando malumore e interferendo negativamente sulla comunicazione e sull’interazione dialogica ed emotiva della comunità.

Fare attenzione

Uno degli aspetti fondanti del “prendersi cura” è il “fare attenzione all’altro”.

Egli non è un oggetto da maneggiare o da spostare. Non sta dove viene messo.

Egli vive, si esprime, cammina accanto.

Il prendersi cura dell’altro, nel fare attenzione, consiste proprio nel non schiacciare l’altro, nel non stargli sopra, ma nel vivergli accanto, sostenendolo, anche solo con la presenza silenziosa.

I veri amici, e le persone che si vogliono bene, non hanno bisogno di parlarsi continuamente. Il loro dialogo sa essere anche punteggiato di attese, di pause, di silenzi, che hanno come scopo quello di continuare a dirsi qualcosa, e sempre di più, con le parole, e con i fatti.

Fare attenzione è, perciò, accogliere, nell’ascolto silenzioso, ma anche nel colloquio pacato, mai aggressivo, mai supponente, ma sempre disponibile alla domanda dell’altro. Perché l’altro interroga e pone un problema, che non è mai solo un suo problema. Ma è sempre un fatto che coinvolge tutti quegli altri che gli stanno attorno.

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