La giusta distanza sociale

Paura e angoscia ai tempi del Coronavirus

Ho ascoltato con attenzione le parole del filosofo Galimberti sull'angoscia determinata dal Coronavirus, e sulla differenza sottile, che già Kierkegaard ci ha insegnato, nella Storia della Filosofia, tra paura, come timore di un oggetto ben definito, e angoscia, come spaesamento di fronte all'ignoto e al nulla.

E mi trova d'accordo la conclusione cui egli giunge, quando sostiene che l'angoscia è oggi, allo stato attuale delle cose, il sentimento più provato da noi tutti.

L'epidemia di Coronavirus, quasi una pandemia, considerato che ormai la morbilità si è diffusa su tutto il pianeta, genera una condizione di stordimento, e di paura generalizzata, perché non conosciamo il virus, non sappiamo come curarlo, e, soprattutto, non abbiamo ancora ben chiare le evidenze della sua diffusione, dal momento che è molto contagioso, e lo si potrebbe prendere anche da chi, all'apparenza, non soffre di sintomi gravi e conclamati.

Un'infezione subdola, una virulenza delle più pericolose, che ci vede disarmati, dal punto di vista medico scientifico, e ci riporta un po' ai tempi della peste del Trecento, o di quella del Seicento raccontata da Alessandro Manzoni nei suoi Promessi Sposi.

Il mondo ci appare come un grande ospedale, dove i ricoveri reali non bastano, e l'emergenza diventa la norma del quotidiano esistere ed essere.

Il sospetto aleggia in ciascuno. Non si frequenta più la chiesa; si evita la folla del supermercato; si preferisce non stringere più la mano; e ci si saluta senza scambiarsi baci e abbracci.

La paura della morte prende il sopravvento sulla gioia e sulla voglia di vivere, e di amarsi.

La distanza si allunga. Le persone si allontanano le une dalle altre, richiudendosi in casa, ed evitando i luoghi pubblici, le mense, i ristoranti, le balere, e tutte quelle occasioni di incontro che potrebbero costituire una pericolosa fonte di contagio.

Le videochat; le lezioni a distanza nelle scuole chiuse; i cellulari, surclassano più che mai l'incontro e il dialogo in presenza, sostituendo lo scambio tra persone con quello virtuale.

La distanza tra gli esseri umani diventa sempre più siderale e aumenta l'impotenza dei contatti che si vanno rarefacendo, fino ad annullarsi nella quarantena, e nell'isolamento più o meno volontario e fiduciario.

Perché la sola cosa certa è che lo stare insieme agli altri può diffondere la virulenza, nuocendo a ciascuno.

Perciò cresce la distanza di due metri tra le persone che si parlano, aumenta l'uso delle mascherine, di ogni tipo, nella convinzione di proteggersi, così, dalla morbilità.

Lentamente, l'angoscia per la diffusione del virus, si va sostituendo con l'angoscia generata dal rapporto umano, dallo stare insieme, dall'essere prossimi, un po' come nel dilemma dei porcospini di Schopenhauer, che se stanno troppo vicini si pungono con i loro stessi aculei, ma se si allontanano soffrono per la mancanza di calore e di prossimità.

Trovare la giusta distanza sociale, per evitare il contagio. Mai come nell'attuale contingenza si pone questo problema. Perché se è vero che siamo animali politici, nel senso di socievoli, come diceva anche il grande filosofo dell'antichità Aristotele, è altrettanto vero che la ricerca di empatia e di prossimità, attraverso la pietas e la compassione, possono nuocerci, se non siamo "attrezzati" noi, prima di tutto, a sopportare il dolore dell'altro. Ed  ecco elevarsi muri invisibili di paura, che tengono lontani l'estraneo, ma anche il figlio, il padre, il compagno, che si amano. E la separazione forzata genera distacco e sofferenza.

E ha ragione Recalcati, sostenendo che siamo giunti ad una grande prova di civiltà.

Vi è, difatti, un imponente lavoro da fare, in questo momento. Perché bisogna formare le persone a sopportare la propria come l'altrui sofferenza, senza lasciarsi prendere dallo scoramento ma cercando, per quanto possibile, che ciascuno, nel suo piccolo limitato ambito di azione, possa essere di aiuto, di sostegno e di conforto per l'altro, che ne ha bisogno. Anche standogli lontano, se questo può servire a preservarlo da un rischio possibile.

Si tratta della più grande sfida umana dei nostri tempi. Una battaglia, quella contro il coronavirus, che non è possibile vincere, se non attraverso l'esercizio di quelle virtù assolutamente umane ed umanistiche, che ogni buona conoscenza filosofica può e deve offrire ai suoi cultori. 

Bisogna superare l'antropocentrismo egocentrico praticando un umanesimo comunitario che, senza emarginare l'altro, sia capace di scorgere nell'alterità, empaticamente, l'immagine dell'essere umano, sostenendo chi ha bisogno di aiuto, senza perdersi completamente né scomparire nella relazione.

Cioè mantenendo integra e distinta la propria identità, pur rimanendo all'interno della dialettica dello scambio.

Ma l'angoscia? Come si fa a gestirla in questo momento? Un po', come sostiene Galimberti, imparando a conviverci, e prendendo atto, ancora una volta, che questa virulenza è il nostro banco di prova e di confronto con una realtà che si impone a tutti, nella sua evidenza, per ricordare all'umanità che nessuno è immortale, e che con la morte, prima o poi, dovremo farci i conti, contro la nostra volontà di essere invincibili ed onnipotenti come Dio. Per sconfiggere l'angoscia, però, serve soprattutto la conoscenza del virus, che bisogna continuare a studiare, perché la ricerca medico scientifica possa approdare presto ad una cura in grado di debellare la malattia, proprio come accade con la comune influenza stagionale. 


Il punto, è che sappiamo anche che sconfitta una malattia se ne riproporrà un'altra. In quanto la battaglia contro virus e batteri è una lunga guerra, che dura da quando esiste il mondo. Questo, proprio perché, ce lo dobbiamo ricordare, non siamo eterni. E in qualche modo si dovrà pur morire.

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