LE NUOVE STREGHE DELL'OCCIDENTE




Parte prima

Analisi della paura


In Metamorfosi della Paura, Roberto Escobar prova a comprendere il fenomeno sociologico dell’esclusione che colpisce l’immigrato, come categoria sociale. Il filosofo inizia la sua analisi dal concetto di appaesamento in de Martino, come esso viene rappresentato nel racconto del pastore di Marcellinara in La Fine del Mondo. La storia narra di un pastore calabrese, che viene fatto salire in macchina da lui e alcuni suoi collaboratori, allo scopo di fornire indicazioni utili al percorso, per rintracciare una strada che quelli avrebbero dovuto seguire. Il pastore comincia a manifestare evidenti segni d’ansia, man mano che dalla vista del gruppo scompare il campanile del paese. De Martino formula, a questo proposito, l’ipotesi dello spaesamento, che produce la percezione dello smarrimento nel pastore, quando egli si allontana dalla visuale del suo borgo natio. Il pastore, difatti, si rasserena solo quando finalmente vede riapparire all’orizzonte il campanile di Marcellinara. Lo stare al mondo, per dirla con l’espressione utilizzata da Heidegger in Essere e Tempo, corrisponde, per de Martino, alla ricerca di un appagamento e di un equilibrio, tra sé e l’ambiente. Una sorta di incontro fusionale tra uomo e natura, o storia, che fa sentire a casa. L’allontanamento dai luoghi cari, che conservano una memoria affettiva, spezza, invece, quel legame atavico con le radici, provocando lo spaesamento. Si tratta della geometria sentimentale di cui scrive nei Saggi di Filosofia e di Vita lo spagnolo Jose’ Ortega Y Gasset . Così come viviamo nell’epoca dello sradicamento emotivo, provocato dai conflitti, dalle guerre, dalla perdita dei posti di lavoro, e dai licenziamenti, esistiamo nello spazio oltre i confini, nella dimensione dello spaesamento. Si tratta della condizione tipica dell’immigrato, che vive la contraddizione di un mondo aperto, e senza frontiere, nel quale persistono, però, ancora, di fatto, le vecchie opposizioni nord-sud, est-ovest, già storicamente vissute all’epoca della Guerra Fredda, tra i paesi del Patto di Varsavia e del Patto Atlantico. La caduta del Muro di Berlino, nell’89, ha costruito un mondo senza confini. Ma davvero possiamo parlare di un mondo multipolare e globalizzato, in cui tutte le divisioni precedenti siano state, di fatto, superate? Il presente vive la contraddizione del glocalismo ; del limes contro l’abbattimento delle frontiere, e la costruzione di un mondo aperto. Mentre lo spettro della paura si agita dentro l’uomo occidentale, anche osservando lo spropositato accrescimento demografico degli immigrati nei confronti dei popoli europei. Lo straniero è vissuto ancora attraverso lo stigma della categoria amico-nemico. L’hostis è xenos. E il sentimento che si agita nei confronti del nemico non può che essere l’odio. Perché l’amore è riservato all’amico. E il morire del nemico, dello straniero, corrisponde alla possibilità del nostro sopravvivere. Il mondo multipolare della globalizzazione si presenta, così, attraverso le categorie della contrapposizione dentro-fuori; amico-nemico; noi-loro; amore-odio; pace-paura. Generando un “noi contro di loro” che esaspera le differenze, producendo l’isolamento della categoria del nemico. La ghettizzazione che si genera è nei luoghi che testimoniano apertamente questo isolamento: i lager, nel corso della Seconda Guerra Mondiale, quando si era giunti alla “soluzione finale”; i manicomi, prima della legge Basaglia, che emarginavano il malato di mente, perché pericoloso, e imbarazzante, per la civiltà delle persone normali. Dalla ghettizzazione all’eliminazione il passo è breve, e si verifica, storicamente, con il genocidio del capro espiatorio (Indios, Ebrei, Armeni, Slavi, Rom, e via dicendo). Si produce, così, l’eliminazione del rivale, da riva, colui che sta sul fronte opposto. Colui dal quale un confine mi separa. Perché è il confine che crea il Barbaro. Il suo peccato non è tanto nell’aver oltrepassato quel confine, portandone al di qua la minaccia, quanto piuttosto nell’aver profanato quei limiti, che costituiscono le sacre Colonne d’Ercole del peccato di hybris. Il mito di Prometeo, che inganna Zeus per donare il fuoco agli uomini, è un altro peccato di superbia. E indica la strada che supera il limes, invalicabile ed inviolabile dal profano. Per Gehlen , l’uomo è un essere non specializzato, che ha sostituito la natura con la cultura, per sopperire alla mancanza di specializzazione e di istinto. La cultura diventa, qui, il simbolo di quel fuoco rubato agli dei da Prometeo. Essa è lo iato, il progetto, il futuro possibile, contro la legge della natura, che rappresenta, invece, l’istinto, la nicchia biologica, la negazione della Storia.    Il limite è la porta, che demarca il territorio, segnandone il confine. Ciò che divide un dentro, il domestico, il domi, dal fuori, l’estraneo, il foris. Il limite non è per l’animale. Esso è fatto per essere superato dalla specie umana. Il limite è il symbolon - ciò che unisce - della cultura, delle istituzioni, dell’ordine pacificante, che si erge a difesa contro il diabolon - ciò che divide - del suo opposto. Il migrante, perciò, è l’incarnazione del male, dello spaesamento, della rottura degli argini, del superamento dei confini. Come ogni diversità che non si addomestica, che rifiuta di irreggimentarsi, fa paura, spaventa. Come l’Ebreo, il folle, la strega, il migrante destabilizzano, perché rompono, spezzano, invadono, entrano, sporcano. Bisogna, perciò, innalzare muri, dietro i quali proteggersi dall’invasione della promiscuità. Donde la funzione stabilizzante del rito, che custodisce il sacro, contro chi vuole demolirlo e distruggerlo, attirandosi maledizioni eterne dall’Alto. E dell’istituzione, che fonda il senso del limite, costruendo la stabilità, ma, al tempo stesso, realizzando anche una metamorfosi della paura, nei confronti di tutto quanto possa rappresentare un tentativo di superare quella stessa asfissia dell’ordine, quando esso venga fanaticamente esasperato. Perché, in questo caso, essa impedisce al nuovo di strutturarsi, come orizzonte del possibile. Nella sua analisi in Massa e Potere, Elias Canetti interpreta le due masse che si contrappongono, in funzione dell’affermazione dei loro reciproci confini, che rafforzano le differenze identitarie, vissute come inequivocabili appartenenze culturali. L’assedio implica il superamento del limes, la cui esperienza rimane comunque un’affermazione di certezza, e il cui oltrepassamento rappresenta l’infrangersi dell’ordine, costituito dalla frontiera stessa. L’ordine, che non è dato, ma difeso, ed è alimentato dal sospetto. L’ordine interno è garantito dalla coesione del gruppo che sceglie, fuori, il suo nemico. Elemento del radicamento, il domi, e dello sradicamento, il foris, avrebbe detto Simone Weil . L’altro è colui del quale temiamo la somiglianza, donde lo stigma e il pregiudizio. Il prezzo della paura della differenza è trovare il colpevole, l’untore, l’eretico, la strega, l’Ebreo, l’immigrato, lo straniero, il Rom, l’infedele, l’omosessuale, il folle. Si tratta di un prezzo che non si paga, ma che viene fatto pagare, dove la diversità si accompagna all’odio, che progressivamente sostituisce l’amore, nelle relazioni sociali. Tutto questo forma l’immagine del Grande Nemico, mentre diffonde la malattia dei confini, del limes, dove campeggiano il campanile, la bandiera, i filosofi stanziali e appaesati, con le loro intramontabili certezze, ma incapaci di scorgere il nuovo, il varco, l’apertura, anche ideale, oltre la porta. Questi uomini stanziali vivono ogni confine come un limite. Laddove i viaggiatori lo interpretano come una soglia, oltre la quale vagabondare, per distruggere e creare, anche attraverso l’inquietudine e il movimento, che generano vita. Dalle catene del radicamento, vissuto in modo fanatico, come sola espressione del proprio sé, ci salvano i molti che sono nell’uno, la possibilità come categoria dell’esistenza, la radice del potuto e del potere, la libertà come concreta determinazione del poter-essere, attraverso i confini, nonostante i confini, che uniscono, oltrepassandoli, il simbolico della certezza, al diabolico dello spirito dell’avventura. “I veri creatori sono duri”, scrive Nietzsche in Così Parlò Zarathustra. Perché per essere creatori, bisogna avere la forza di rompere con il passato. Sisifo , e il suo mito, diventano, così, il simbolo della ricerca senza fine, e della sua umana imperfezione. Egli è il filosofo che trova nuovi, insospettati confini, al di fuori dei limiti imposti. Ripetendo sempre la stessa azione. Nella salita la verità diventa certezza, conquista. Nella discesa, si fa scivolamento senza garanzia, baratro dell’errore e dell’oblìo. Ma è proprio quando il gigantesco masso comincia la sua veloce ricaduta, nello scivolamento verso il basso, che Sisifo trova riposo, che si pacifica col suo corpo, perché ora dovrà correre in discesa, e con la sua mente, perché ha capito che nessuna conquista umana è “per sempre”. Anche se si agita nella ripetizione di un gesto sempre uguale a se stesso. Ed è in quell’iterazione senza fine, ed apparentemente senza significato alcuno, che risiede il vero, sta la vita, prende corpo l’esistenza. Come in un andare e venire senza posa, sempre identico a se stesso, che spezza l’immobilità dell’essere parmenideo, proiettando la vita nel suo divenire, cui soltanto i creatori, in quanto ricreatori per l’eternità, riescono a dare significato pieno. Sisifo si scorda del passato, lo cancella nel momento stesso della sua conquista, precisamente quando il masso riprende la sua discesa folle verso il basso. Ed, instancabilmente, ricomincia, la sua stessa follìa, sempre uguale, sempre quella, perché priva di memoria. Senza uscirne. Come fa il mago, creando nel bene; come la strega, agendo nella perversione del male. Allo stesso modo si comportano i filosofi, quando hanno il coraggio di varcare le Colonne d’Ercole. Ma è proprio allora che il mondo civile, la società della ragione pedissequa, e paga di sé, necessitano di punirli, bruciarli, eliminarli. Come accadde a Giordano Bruno. Come sarebbe accaduto a Galilei, se non avesse abiurato la tesi sull’eliocentrismo della moderna concezione del cosmo. Lo si fa per mettere a tacere la paura. Per sconfiggere il terrore dello spaesamento. Per darsi l’illusione di tornare a casa, alle proprie certezze, indenni, e senza grandi scossoni. L’immunità ha però, spesso, un alto prezzo da pagare. E sedersi, accomodandosi, nelle preconcette verità, è solo uno dei tanti modi per sopravvivere all’angoscia, senza domandarsi ancora.

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