Le Città Invisibili

 Le Città Invisibili di Italo Calvino 


Le Città Invisibili, pubblicate nel 1972 da Calvino, di cui quest’anno si celebra il centenario della nascita, come opera letteraria si inseriscono entro un’ampia serie di scritti, di tipo filosofico, sul tema della città ideale, che già da Platone in poi si disegna, nella storia del pensiero, come progetto di una città futura, o possibile, di contro ad una città reale, che mostra i suoi limiti evidenti, e che è “infelice” nel senso più ampio del termine. Faccio qui riferimento ad opere come La Repubblica di Platone; l’Utopia di Tommaso Moro; La Città del Sole di Campanella; La Nuova Atlantide di Bacone; Il Programma di Gotha di Marx. 

La città ideale non è necessariamente uno spazio geografico, un luogo, un sito. La città ideale è dentro chi la abita, e vive in quella dimensione interiore dello spazio e del tempo dell’umanità di ogni tempo e di ogni spazio. Ma anche scontro tra ideale e reale, in cui spesso non esiste alcuna possibilità di conciliazione dialettica. 

La riflessione sulla città è portata avanti anche da Nietzsche, in Così Parlò Zarathustra, quando la mette a confronto con la montagna, da cui il protagonista del viaggio proviene, e la paragona alla carta straccia di cui sono fatti i giornali che la raccontano, giorno dopo giorno. 

Nelle Città Invisibili di Calvino si assiste ad un dialogo immaginario tra il mercante veneziano Marco Polo e l’imperatore dei Tartari Kublai Khan, il cui regno è ormai in rovina. Kublai chiede, perciò, a Marco Polo di esporre un resoconto dei suoi viaggi, per narrargli di tutte le favolose città che l’esploratore ha visitato. Polo inizia il racconto parlandogli di città che hanno tutte un nome di donna, e che, come le donne, sono originali e uniche, nel loro genere, e dunque tutte diverse, l’una dall’altra. La città, difatti, è da sempre emblematico luogo di scontro tra ideale e reale, proprio come le donne. 

La città com’è nella sua realtà, spesso si trova a dialogare con la città ideale, dei sogni e dei desideri, in una costante dialettica fatta di memoria del passato, che attraverso i segni del presente si muove verso la città del futuro, la città possibile, del desiderio. Le conquiste umane, difatti, sono tutte labili. Soltanto il sogno, e i grandi ideali, possono rendere eterne ed immortali le muraglie delle città, destinate a crollare cedendo al tempo, e alle aggressioni della natura o dell’uomo. Ma, per raccontare una città, non bisogna forse viverla a fondo? E vivere una città vuol dire abitarla o solo visitarla da straniero, o peggio ancora sentirla raccontare dalla narrazione di un viaggiatore? 

La dimensione del viaggio è sempre quella di una ricerca interiore. Si viaggia, essenzialmente, per conoscere se stessi attraverso i luoghi estranei e nuovi che si visitano. Come se nel girovagare del viaggiatore scorresse la trama di tutto il suo passato e, dal presente, prendesse nuova linfa vitale il progetto di un futuro, e di ogni futuro, ancora possibile. Perché il tema della città si lega, inevitabilmente, a quello del viaggio e del viaggiare. Ed il tema del viaggio fa riferimento a quello di una ricerca anche interiore, che si muove all’indietro, nel tempo, a scandagliare il passato nella memoria, e al contempo in avanti, nella dimensione onirica del desiderio, che palesa già nuovi orizzonti futuri. La città è infatti passato, presente e futuro, come patrimonio della memoria, dei segni e del desiderio, sognato, malinconico e nostalgico allo stesso tempo. Le città si stratificano l’una sull’altra al trascorrere del tempo, geologia della memoria e della storia andata. 

Ma era migliore la città del passato o bisogna preferirle la metropoli futuristica? In ogni città c’è la città passata, quella presente, e quella futuribile. In cui le parole possono dire fino ad un certo punto. A raccontare sono le piazze, le strade, i monumenti, le chiese, la gente che vi abita, con i suoi riti, le credenze, la cultura e la devozione che manifestano ed esprimono attraverso celebrazioni popolari. 

La città, è per ciascuno, sempre la risposta ad una domanda, di affetti, di relazioni, di amore, di lavoro. Tutto ciò che si chiede ad una città dovrebbe condurre alla felicità dei suoi abitanti. Si vive in una città perché lì c’è lavoro, o per inseguire un amore. Ma la città è spesso anche abbandonata dai suoi concittadini. La storia delle partenze coatte è un po’ la narrazione delle grandi migrazioni, in cui masse enormi di gente si spostano da continenti e siti geografici più difficili verso luoghi più ospitali. 

Tra Quattrocento e Cinquecento si viaggiava per esplorare nuovi mondi e scoprire nuove terre. Oggi si viaggia per fuggire da guerre, o da situazioni emergenziali in cerca di fortuna. Soprattutto dall’Africa settentrionale, ma anche dall’Africa del Sud. Oppure dai paesi dell’est Europa e dall’Ucraina. Quando si tratta di attraversare i mari, ci si imbarca su mezzi di fortuna, tante volte destinati a fare naufragio. I fuggitivi sono disperati e convinti di trovare in Europa ciò che non hanno mai avuto nella loro terra: pace e un lavoro  dignitoso, che permetta di vivere progettando un futuro per se stessi e per le loro famiglie. Eserciti di badanti, di lavavetri ai semafori, di braccianti della terra e di nulla facenti, arrivano in Italia con la speranza di iniziare una nuova vita e di trovarvi un futuro migliore. Quanta disperazione negli occhi, e che differenza, questi viaggiatori della speranza, dalle spedizioni di Colombo e di tutti gli altri esploratori del passato, primo tra tutti proprio lo stesso Marco Polo!

La città, difatti, è anche negli occhi di chi la guarda. Se è abitata da gente infelice, la città sarà guardata soprattutto verso il basso. Chi è felice, invece guarda all’insù, verso il cielo, da altre prospettive, osservando una città assolutamente differente da chi la vede soltanto dai bassifondi. 

Le città sono come esseri umani. Ogni città gode di una nomea, ma spesso la città viva, reale, abitata, è assai diversa dalle sue descrizioni immaginarie, che fissano un giudizio una volta per tutte, cancellandone il movimento, ed il cambiamento sempre ancora possibili. 


Le città Invisibili di Antonietta Pistone


Le città invisibili sono quelle svuotate dalla pandemia, quelle distrutte dalle guerre, quelle spopolate dalle assenze delle persone che non riusciamo ad incontrare o che non vedremo più perché non ci sono più... Ma sono anche quelle dei luoghi che non abbiamo ancora visto e che visiteremo solo nei sogni. E poi quelle interiori, della geometria sentimentale, nascoste all'altrui sguardo di superficie. Ogni città è ciò che è e ciò che non è ancora, ma potrebbe essere. Ad ogni città reale corrisponde il mito di una città ideale... Fuori e dentro di noi...

Antonietta Pistone, Le Città Invisibili (Edizioni del Poggio, Aprile 2022)

Dall’Introduzione…

"L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.” (Marco Polo ne Le Città Invisibili di Italo Calvino, cit.).

Così termina il racconto romanzato del 1972, Le Città Invisibili di Italo Calvino. La narrazione è scritta in forma di dialogo tra l’esploratore veneziano Marco Polo e l’imperatore dei Tartari Kublai Khan, tra i primi fondatori della Cina, dove il viaggiatore italiano si era recato nella sua spedizione in Asia, intorno al 1298, insieme al padre Niccolò e allo zio paterno Matteo. Le memorie di questo viaggio sono narrate nel Milione, libro che poi ispirò Cristoforo Colombo che, nell’intento di raggiungere le indie orientali, seguendo il percorso di Marco Polo, giunse nel 1492 sulle coste dell’America Centrale, senza averne piena consapevolezza.

Nel romanzo di Calvino, Polo descrive a Kublai Khan le città visitate nel corso dei suoi viaggi esplorativi, ma spesso si ha la sensazione che la narrazione delle vicende personalmente vissute dal veneziano, si confonda con memorie e immagini fantastiche, o con nozioni apprese facendo girare il mappamondo, o dando uno sguardo all’atlante. In fondo, sostiene Polo, tutte le città si somigliano, nella realtà, e le loro immagini si sovrappongono, nella memoria, anche a quelle delle città ideali, come La Nuova Atlantide, Utopia o La Città del Sole, sognate qualche secolo dopo dai filosofi Francesco Bacone, Tommaso Moro e il Campanella.

La città non è solo quella che è, ma anche ciò che disegna la sua prospettiva, diversa per ciascun suo visitatore, e arricchita dalla geografia sentimentale che descrive Ortega nei suoi Saggi.

Ma, soprattutto, la città vive anche di una sua dimensione interiore, nel pensiero di chi la abita, o la attraversa. Tanto che a ogni città reale si sovrappone una città ideale, immaginata, e vissuta, nello spazio intimo della psicologia di ciascuno. E questa è propriamente la dimensione delle Città Invisibili, che non appaiono realmente all’occhio umano, ma che occupano un posto tanto più importante per la coscienza di chi ne faccia esperienza, in quanto vanno a disegnare quella cartina interiore dei luoghi e delle emozioni, che costituiscono, nel loro insieme, la dimensione personale e soggettiva del vivere e dell’abitare i luoghi.

A questo sentire, interiore ed intimo, si ispira il mio ultimo lavoro, Le Città Invisibili, che prende il nome proprio dall’opera omonima di Italo Calvino, ma anche da una mia poesia, che dà il titolo al libro, costituito da una prima parte, composta da liriche; e da una seconda parte, in cui è presente un racconto, che rimarca il tema del viaggio, in qualche modo anche di un ritorno a casa, di un nostos ideale, della protagonista, nel suo andare alla ricerca dell’amato, ma soprattutto di se stessa, e della sua dimensione più autentica del vivere. In questo senso, ogni città rivive nella vita di chi la abita, la attraversa, la percorre, e la visita. E ciascun viaggiatore, o abitante, si porta dietro le sue memorie di vita, ma anche la sua stessa città di origine. Riflessione che fa dire al Marco Polo di Calvino che in ogni città da lui descritta c’è un aspetto della sua Venezia, come se tutte le città del romanzo fossero tante espressioni diverse di una sola protagonista, che rimane Venezia, e che è sempre la Serenissima.

Allo stesso modo, io amo viaggiare, per conoscere e visitare luoghi ignoti e sconosciuti, e per parlare con la gente che incontro strada facendo; ma desidero ritornare alla mia casa, luogo degli affetti; e alla mia città, odiata e amata, al tempo stesso, per tutte le contraddizioni che si porta dietro, e che rappresenta in un continuo confronto con le altre realtà italiane e del mondo intero.

Viaggiare diventa, perciò, un’indispensabile esperienza di vita e di crescita, che riporta a casa quel pezzetto di mondo smarrito dalla città nella quale ci troviamo a vivere, tante volte contro la nostra consapevole volontà, in una continua nostalgia di quel luogo incantato, ed agognato nei sogni, che ci manca, e che vorremmo ancora avere e conquistare.

E tante volte, quel luogo, non è soltanto lo spazio fisico di un sito geografico, ma una memoria dello spirito che si perde lontana nel tempo degli affetti e degli amori che ancora non conosciamo.


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