Intelligenza emotiva



O intelligenza del cuore...


Si dice che l'amore è cieco, e che, come esplica la vignetta che ho scelto per questo post, il cuore non ci vede ad un palmo dal suo naso. 

Sono modi di dire che significano esattamente che il ragionamento del cuore, la sua intelligenza, detta anche "emotiva", non sono razionali allo stesso modo dell'intelligenza cerebrale, concepita più come ragionamento logico e lineare, che come espressione affettiva, nei confronti della vita e dei suoi problemi.

Eppure, il cuore è così importante, che quando ce ne dimentichiamo, e prendiamo decisioni razionali, eludendo l'apporto delle emozioni e dei sentimenti, non ci sentiamo pienamente realizzati nella scelta che abbiamo compiuto.

In questo caso si dice che cuore e cervello non si sono accordati, e che è stato prediletto l'uno a scapito dell'altro.

La vera scelta esistenziale, quella che realizza l'umanità felice, deve, di necessità, contemplare le ragioni della ragione e quelle del cuore, che le sue ragioni non conosce, come sosteneva il grande filosofo francese Blaise Pascal, criticando la razionalità asfittica del matematico Cartesio, il quale aveva voluto intendere come "razionale" tutto ciò che avesse a che fare con il ragionamento logico dimostrativo, proprio della deduzione aristotelica.

Questa espressione della ragione, per secoli esaltata nella storia del pensiero filosofico, si capiva, poi, dopo Pascal, tra Ottocento e Novecento, essere monca di un aspetto fondamentale della vita psichica dell'essere umano, e della persona fatta anche di emozioni e sentimenti, apparentemente irrazionali.

Oggi si è portati, pertanto, a riscoprire e a valorizzare integralmente il ruolo di questa intelligenza emotiva, che ha il portato delle ragioni del cuore di pascaliana memoria. E a sottolineare il peso di questa componente della ragione umana sono, prima di tutto, i teologi come Vito Mancuso, e gli psichiatri come Crepet, il cui ultimo lavoro si intitola Passione.

Quella passione, da Platone messa al centro del suo pensiero, che per tanto tempo è stata poi relegata nel cantuccio delle cose filosoficamente indicibili, è stata finalmente riscoperta e valorizzata, a partire da Freud, nella psicoanalisi, per essere poi ribadita costantemente nelle raccomandazioni didattiche e pedagogiche, e nell'attuale panorama delle patologie della mente. 

Perché l'assenza della passione, nel vivere, è già una precondizione della sofferenza e del disagio. 

Chi non ha passione non ama nulla. E chi non ama nulla, non conosce nulla. Non ha valori e aspirazioni che possano orientare la sua vita e le sue scelte, dare un senso all'esistere, imprimere una direzione, ed un orientamento, al vivere medesimo.

L'assenza di passione, e di passioni, si configura, perciò, come quel male di vivere che Montale ha voluto incontrare e raccontare, per riconoscerlo come uno dei rischi più attuali del Novecento stesso.

La riscoperta della passione ci dice, invece, che tutti abbiamo un'anima, e dei sentimenti, e che il suo benessere come la sua sofferenza, segnano profondamente la differenza tra una vita felice, che vale la pena di essere vissuta, ed una vita che non ha più scopo, né fine.

Quest'anima, che è anche il segno della presenza di un mondo spirituale, ci suggerisce che, probabilmente, il vivere non è tutto qua, e che è bene per l'uomo che egli aspiri ad una forma di immortalità dello spirito, che per il credente si intravede nella promessa di una vita eterna dopo la morte. Per l'ateo, o per chi vive in modo laico, significa l'abbandono di una prospettiva materialistica, che si fondi esclusivamente sul consumismo e sul possesso della "roba", che conduce ad una vita davvero miserabile, come quella che vive Mazzarò, il protagonista dell'omonima novella di Giovanni Verga.

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