Punizione e pena in Simone Weil




“La sconsideratezza della polizia, la leggerezza dei magistrati, il regime delle prigioni, il declassamento definitivo dei pregiudicati, la scala delle pene che prevede una punizione assai più crudele per dieci furti insignificanti che per uno stupro o per certi assassinii, e che inoltre prevede punizioni per il semplice incidente, tutto ciò impedisce che esista fra noi qualunque cosa meriti il nome di punizione”. Ciò scrive Simone Weil nelle pagine de La Prima Radice, quando, affrontando il problema dei bisogni dell’anima, riconosce tra questi quello della punizione per un reato commesso, come necessità di coniugare il dolore con il senso di giustizia che ne deriva, pacificando l’anima del reo. Eppure, in queste parole, scritte dalla filosofia francese tra il 1942 e il 1943, all’epoca del secondo conflitto mondiale, e dopo l’occupazione di Parigi da parte delle truppe naziste di Hitler, si scorge un profondo disappunto. Simone Weil riconosce apertamente che in un mondo in cui la pena non è direttamente funzionale al recupero sociale e al pentimento dell’imputato, non esiste punizione che abbia un qualunque valore umano di tipo esemplare.

Ritengo assolutamente attuali le considerazioni della Weil, perché i suoi pensieri sembrano appartenere più che mai all’oggi, che disconosce la certezza della pena, che attenua persino quelle pene che dovrebbero colpire i reati più gravi, come l’omicidio, che riconosce l’ergastolo solo in linea puramente teorica ed astratta, nel codice penale.
Troppi sono ormai i reati che rimangono impuniti, perché ad essi non si riesce nemmeno ad attribuire un colpevole.

Ma diamo anche uno sguardo dentro le carceri italiane. Proviamo ad immaginare come vivono i responsabili degli atti criminali più disparati oltre le mura che li privano della libertà.

Una recente indagine ha svelato che la maggior parte dei detenuti negli istituti penitenziari italiani, sovraffollati, non lavora se non a spese dello stato. E vive, di fatto, tra il letto e la sedia della propria cella, guardando la tv tutto il giorno, se si fa eccezione per l’ora d’aria, in cui può incontrare gli altri compagni detenuti.

Se si considera che, soprattutto i responsabili di piccoli furti, spesso giungono a rubare perché non hanno nemmeno di che sfamarsi, si può facilmente dedurre che, per queste persone, il regime carcerario assicura almeno un tetto, un posto letto e un pasto caldo gratuito quotidianamente, risolvendo, pertanto, quel problema di fondo, che è all’origine stesso del loro delinquere. Motivo per il quale si calcola anche che, in questi casi, che sono la maggior parte, la recidiva è elevatissima. Perché chi sconta la pena, e si ritrova all’improvviso fuori, senza un lavoro, senza un tetto, e senza cibo, non ha altra scelta che ricominciare. Inoltre, molto spesso, le famiglie di origine abbandonano l’ex detenuto a se stesso, per i motivi più disparati. La solitudine sociale, e la mancanza di solidi legami affettivi di tipo familiare, sono dei potenti detonatori del crimine, che prima o poi riesplode, perché delinquere rimane l’unica soluzione per tutti i problemi di sopravvivenza, da parte di chi non ha nulla, ormai, e non trova nulla, che gli appartenga davvero, fuori dal carcere.

Lo stato delle carceri italiane è, invece, di profondo abbandono. I lavori di manutenzione più semplice risultano difficili per la mancanza di fondi economici. Ma la legge vieta ai detenuti di lavorare gratis, per lo stato, riparando anche così il loro debito con la giustizia. Una palese contraddizione, che impedisce al detenuto di sentirsi utile, e magari di imparare anche un mestiere, e allo stato di potersi avvalere di manodopera gratuita per ripristinare quei servizi funzionali ed indispensabili alla manutenzione degli istituti di pena.

Se è vero, come sostiene anche Simone Weil, che la punizione deve essere esemplare e correttiva, non si può non dedurre che il sistema penitenziario italiano è marcio in partenza. Come si può pensare di correggere qualcuno facendolo vivere nell’ozio quotidiano, mentre gli si offre gratuitamente tutto ciò di cui l’essere umano ha bisogno, senza insegnargli ad estinguere da sé il bisogno stesso? Non sarebbe meglio insegnare a pescare, piuttosto che continuare a regalare pesci, anche a chi non li merita?

Il sistema della Giustizia, parola che Weil tanto amava, contrapponendola a quella molto più fredda di Diritto, deve essere ripensato completamente, a partire da questi presupposti.

L’abolizione della pena di morte è stata un atto di civiltà degli Illuministi. Ma il concetto di pena e punizione devono essere totalmente riconsiderati, alla luce di un reale recupero sociale del detenuto che, una volta scontata la pena, deve avere la possibilità di reintegrarsi a  pieno diritto nel mondo lavorativo esterno, per evitare di subire forti tentazioni alla recidiva.

Perché il detenuto è sradicato da sé e dagli altri, ed è emarginato dal sociale in cui si ritroverà, estinta la pena. Il radicamento passa anche attraverso il lavoro, l'essere utile a se stesso e agli altri. Il fare qualcosa di buono per la società civile e per lo stato, cui il reo aveva precedentemente nuociuto.

“La punizione è un metodo per far entrare la giustizia nell’animo del delinquente mediante la sofferenza della carne”. Scrive ancora Simone Weil. E, se è vero che il lavoro nobilita l’uomo, anche attraverso la fatica e il sacrificio, non c’è modo migliore di questo per far entrare la giustizia nell’animo del detenuto, passando attraverso la sofferenza della carne, senza dargli la morte.

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