Il Complesso di Telemaco




Per continuare l’analisi del rapporto padre-figlio, iniziata in Cosa resta del Padre? nel 2011, Massimo Recalcati pubblica nel 2013 Il Complesso di Telemaco. Il libro completa la ricerca sulla genesi del conflitto intergenerazionale, e sull’elaborazione dell’assenza genitoriale, nell’epoca ipermoderna.


Riprendendo il discorso da dove lo aveva interrotto, al tempo del suo primo lavoro, lo psicoanalista lacaniano traccia i profili di quattro tipologie di figli della contemporaneità.


I modelli proposti sono quelli del figlio edipico, dell’anti-Edipo, del figlio Narciso, e di Telemaco.


Tutte le figure fanno riferimento ai tre complessi della psicologia, meglio conosciuti come complesso di Edipo, complesso di Narciso, e complesso di Telemaco.

I tipi presentati nelle figure su menzionate, costituiscono la chiave di volta per interpretare le relazioni e i rapporti tra padre e figlio. Complessi che hanno finito per rappresentare anche modelli scolastici, come il Recalcati scriverà poi ne L’ora di Lezione, successivamente pubblicato nel 2014. Ma che sono in se stessi lo specchio di epoche diverse, che si inseguono negli anni passati, e si intersecano, mescolandosi, nell’attualità dell’oggi.


Il figlio edipico è quello del passato della contestazione giovanile, e incarna il modello del ’68 e del ’77, rappresentando la generazione dei giovani che hanno rifiutato la figura del padre, disconoscendo, in modo ingrato, la loro eredità, e il loro debito, nei confronti dei vecchi. Il complesso di Edipo è quello di chi deve uccidere il padre per avere un futuro, perché non sa immaginare un avvenire che sia radicato nella storia. I figli edipici costituiscono la generazione di quelli che immaginano di essersi fatti da soli. E che, non di rado, falliscono i loro obiettivi, proprio per mancanza di radicamento e di riconoscenza filiale. Sono come foglie che cadono giù dagli alberi, cui non riconoscono di appartenere. Il figlio edipico è, però, anche quello dell’abbandono del padre. Il figlio che ha sperimentato l’assenza del genitore, a tal punto da non riconoscerlo, quando se lo trova davanti. Ed è il figlio che rigetta il benessere, le comodità, l’agio, e il lusso paterno. E che, in questo rigetto trova il modo per far sentire il padre in colpa per averlo abbandonato. In un certo senso, per non averlo, a sua volta, riconosciuto. Perché l’attesa del padre si muove sempre insieme a quella del figlio. E si colma nel corrersi incontro di due presenze che si riconoscono. Questo idillio si spezza facilmente: basta che uno dei due non riconosca l’altro, o si rifiuti di farlo. Il figlio edipico attribuisce la responsabilità, di questo mancato riconoscimento, unicamente al padre, facendo, perciò, ricadere la colpa tutta sulla di lui persona.


La figura del figlio edipico, esprime anche un netto rifiuto del capitalismo e della società di massa, concepita come società del conformismo e dell’appiattimento del pensiero critico, che si presenta, nei padri, e nel modello della sua trasmissione, nella forma di un’omologazione al passato, che si vorrebbe ripetere, in tutto uguale a come è stato.


Ad essa, fa seguito l’immagine del figlio anti-Edipo. Il suo esatto opposto. Perché il figlio anti-Edipo è precisamente il figlio che si accomoda negli agi del padre, vivacchiando alle sue spalle, usando le comodità e il lusso che gli provengono dal lavoro delle generazioni passate. Accettando, di fatto, tutto sommato una situazione di comodo, in cui non è necessario darsi da fare. Il disagio tra le generazioni, e la conseguente difficoltà di dialogo, si gestisce, così, attraverso forme di parassitismo, che fanno pesare sui padri la loro inadempienza, e la loro incapacità. Perché anche il padre dell’opulenza è assente e distante dal figlio, nella sua continua rincorsa del profitto e dell’interesse economico, dal quale la società di massa giudica chi ha successo e chi non ne ha. Il figlio anti-Edipo è quello dell’avere, piuttosto che dell’essere. Del microcosmo di solitudine e di rancore coltivato nello smarrimento del ritrovarsi senza un padre. O meglio, con un padre che regala cose, al posto della sua presenza, come surrogati di un vuoto da riempire.


Se le patologie del figlio edipico vanno dal consumo di droghe, fino alla violenza politica, e storicamente segnata dall’appartenenza a gruppi terroristici, armati contro l’ordine costituito, rappresentato dallo stato; il disagio del figlio anti-Edipo si manifesta nella somatizzazione di stati d’ansia, che vanno dall’anoressia alla bulimia, agli attacchi di panico, fino alla depressione vera e propria, allo sviluppo delle dipendenze.


C’è, poi, un altro modello filiale, che è quello oggi presente nel figlio Narciso, che si rispecchia nella sua bellezza, nella gioventù, nella prestanza fisica, riconoscendo in sé le doti di bellezza, gioventù, e prestanza fisica del padre. Il figlio Narciso è il prodotto della società dell’opulenza, che ha alienato il compito dell’educare, trasferendolo dalla famiglia alla scuola. Questo modello di figlio è continuamente protetto dal genitore onnipresente, che è sempre pronto a difenderlo dai compagni, dagli insegnanti, schierandosi totalmente dalla sua parte, e sollevandolo dalle sue responsabilità, impedendogli, di fatto, di crescere e di diventare uomo. Il modello richiama la figura del genitore-amico, eterno adolescente, che si veste come il figlio, va in discoteca con gli amici, è sempre a caccia di ragazzine di vent’anni. Generalmente è separato dalla moglie, e si dà un tono, atteggiandosi a fare il giovane fuori tempo, senza rendersi conto di risultare, spesso, ridicolo, ad uno sguardo freddo e disinteressato.


Il figlio Narciso sarà un insicuro, immaturo e irresponsabile; spesso anche un inconcludente. Incapace di portare a termine un progetto di vita, perché sempre distratto da qualunque cosa lo richiami al suo perenne stato di adorazione delle doti di bellezza, che si gloria di avere, e nelle quali si riconosce, vantandosi, nel padre Adone. La superficialità è la prima caratteristica evidente di questa tipologia di figlio, che è a rischio di sviluppare una grave depressione, non appena la vita dovesse svegliarlo duramente, ferendolo con un’esperienza infelice, per riportarlo alla realtà.


Il solo modello filiale che meriti lo stato di erede è, per Recalcati, il figlio Telemaco. Egli non rifiuta il padre, né si assimila in tutto a lui. Ma sa tenere la giusta distanza. Telemaco non recrimina l’assenza del padre, attivandosi, piuttosto, per ritrovarlo, e riportarlo a sé. Generalmente è il figlio al quale la madre, anche se è stata abbandonata, non fa pesare lo stato di solitudine, invitandolo ad essere operativo, piuttosto che a lasciarsi andare. Telemaco sa, perciò, anche quando non è vero, che il padre è assente per seri motivi che lo tengono distante. E coltiva la sua autostima. Egli sa che la sua lontananza non è mancanza di amore nei confronti del figlio, ma è motivata da esigenze reali, che gli impediscono di ritornare presto. Telemaco, dunque, conserva intatta la memoria paterna dentro di sé, perché quella memoria viene coltivata dalla madre, che gli parla di un padre presente, anche nell’assenza del lavoro o dell’abbandono. Telemaco ha, così, la forza di aspettare e di cercare il ritorno del padre, e si siede ad attendere sulla riva del mare, per scrutare la sua nave all’orizzonte, dopo aver viaggiato in cerca di lui. La fede non lo abbandona, e così anche la speranza. Mentre la sua casa è assediata nella notte dei Proci, e tutti i valori dell’ospitalità sono stati calpestati dalla dissipazione del piacere consumato in fretta, Telemaco è lì che attende, fiducioso, il ritorno del padre. Perché non ha nessuna voglia di dare in pasto ai Proci la madre e tutte le sue sostanze. Perché vuole essere erede. E testimone di un ritorno. Quello della Legge del padre in grado di bilanciare il desiderio contro il piacere smodato e fugace. E la sua attesa paziente viene premiata. E nell’incontro Telemaco diventa egli stesso il padre che ha atteso per anni. Il solo che ha il diritto di avere tutto. Perché lui solo è il figlio amato di Ulisse. L’unico che viene riconosciuto dal padre come il giusto erede.


L’erede è sempre colui che ha perso qualcosa di molto importante. Recalcati sostiene che non si può essere eredi se non si è anche orfani di qualcuno. Lo status di erede è, perciò, contestualmente uno stato di accettazione di qualcosa di molto importante, ma solo in virtù di una grande perdita subita. Di una mancanza, di un’assenza radicali, nella persona dell’erede. Ma che devono essere anche superate, per andare avanti.


Bisogna amare il passato. Bisogna sapersi radicare in esso. E sentirsi in debito con l’Altro, per essergli grati. Ma è necessario anche superare senza rancore il peso dell’assenza, il lutto, la perdita, la mancanza. Perché questo è il solo modo per poter riuscire ancora ad immaginare un futuro. E il giusto erede sa andare oltre. Anche oltre la memoria di ciò che è stato. Se ciò che è stato merita l’oblìo e la dimenticanza. Mantenendo viva la fiamma del desiderio e della testimonianza, attraverso la Legge, che l’Altro ha lasciato in eredità.

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