Dove va oggi la filosofia?


Ricerca del senso e del valore tra storia politica e verità

La filosofia muove ormai da un indirizzo nichilistico. Sebbene si avvalga tradizionalmente della ricerca libera, che si orienta entro il panorama ontologico ed assiologico del Bene, il vuoto del senso e del valore sono al contempo un presupposto e un rischio della società capitalistica di mercato, che ha posto l’economia al centro del sistema dei principi della modernità, sostituendo il criterio del profitto e del guadagno a quello della verità.

Di questa diffusa perdita sociale di centri di riferimento, e del conseguente smarrimento del significato del vivere e dell’esistere, soffre anche la ricerca filosofica, che ne paga le spese più di qualsiasi altra scienza.

Questo, perché la filosofia si è storicamente trovata ad affrontare quella crisi della ragione che ha posto il problema del senso e del valore, che seguì il periodo della decadenza della polis greca e dell’affermarsi della cultura ellenistica, quando l’intellettuale si isolava dal mondo per ritrovarsi solo, al chiuso del suo studio privato.

Iniziava così l’interiorizzazione della realtà, che corrispondeva anche ad un diverso conferimento, ad essa, di significato.

La verità non era più in ciò che accadeva al di fuori dell’io del soggetto conoscente, ma si fissava, concettualizzandosi e materializzandosi, entro l’orizzonte relativo dei pensieri e dei sentimenti del singolo individuo.

Il mondo non corrispondeva più a come esso appariva fuori, ma era tutto nelle dinamiche della percezione che di quel mondo l’io si andava facendo, diventando sensazione ed emozione del momento.

Questa perdita di universalità nell’esperienza della conoscenza corrispondeva a ciò che, nella modernità, è stato individuato come scissione io-mondo, che in psichiatria viene riconosciuta e denominata come patologia schizofrenica.

Come sua immediata conseguenza, la scissione io-mondo ha determinato, nella contemporaneità, anche una dissoluzione della comunità e del collettivo.

Nel corso del tempo, dalla proprietà comune si è passati alla proprietà privata e, con lo sviluppo industriale, al capitalismo vero e proprio, e all’individualismo solipsistico, che hanno sostituito la massa informe dei consumatori ai cittadini, precedentemente identificati con la comunità di appartenenza.

Di contro, la Rivoluzione d’Ottobre, ha rappresentato un desiderio legittimo di ritornare ai valori di solidarietà civile della Rivoluzione Francese, permettendo al ceto operaio di credere di avere la forza e il potere di cambiare la storia, per sovvertire le ideologie dominanti, e far implodere su se stesso il capitalismo economico, con i suoi ruoli di dominio.

La Rivoluzione ha operato quella sovversione che non le riforme, ma le guerre, avevano sempre reso possibili, dando ragione a Marx.

Le guerre, come strumenti di cambiamento sociale, si possono distinguere in guerre coloniali, civili e tra stati. In ogni caso, la guerra è uno strumento di dominio imperialistico, che consegna la vittoria al più forte e al più violento dei contendenti.

In qualche modo, il conflitto combattuto e risolto con le armi spezza la continuità tra antico e moderno, e tra passato e presente, rendendo anche più difficile lo sviluppo dell’immaginazione progettuale del futuro.

Senza passato nessuna storia è possibile e perciò nemmeno è immaginabile un futuro.

Tra i filosofi dell’antichità va riscoperto il Platone politico che prima di Aristotele ha introdotto l’idea di comunità. Essa coincide con la ricerca del bene comune di tutta la collettività, e non soltanto con quello di pochi eletti tra i cittadini.

A buon diritto, pertanto, il maestro del Filosofo, può essere ritenuto il precursore del Comunitarismo di cui, poi, lo stesso Aristotele verrà ricordato come il padre fondatore.

Il Platone politico presenta, però, un’ambiguità di fondo. Il suo pensiero non si può ideologicamente collocare a destra più che a sinistra.

Quando si fa riferimento ai rapporti di schiavitù servo-padrone, che dominavano il mondo antico, Platone anticipa Hegel, ed immagina, nel Volk, nel Geist, nello Staat, quegli elementi di fondazione dello Stato Etico, fatti propri da Hitler nel 1933. Principi che sarebbero stati poi a fondamento della Teoria della Razza (Rasse), dell’eugenetica, e dell’antisemitismo, e che, peraltro, già si trovavano in nuce nel platonico Mito dei Metalli.

Quando Platone scrive, invece, nella Repubblica, esprimendosi a favore del comunismo delle donne e dei beni, anticipa il Socialismo di Rousseau e di Marx, facendosi precursore politico delle idee e dei valori della sinistra.

In un modo o nell’altro, in ogni caso il Platone politico, portato alle estreme conseguenze, conduce ad uno stato totalitario che non si riconosce in un’appartenenza comune, e democraticamente partecipata, sia esso di destra o di sinistra.

Eppure Platone con la sua scuola aveva affrontato la problematica della tirannide. Nota è la vicenda che vide il filosofo impegnato a Siracusa con Dioniso, padre e figlio, per convincere entrambi a moderare il loro potere in senso democratico, avvicinandosi alla filosofia, al fine di consentire ai cittadini sudditi un rapporto più equilibrato con le scelte politiche partecipate della città.

Il tiranno, difatti, pur nell’intento di esercitare la sua libertà, in modo assoluto, finisce per essere il più schiavo tra gli schiavi, incatenato alla sua sete di potere, e vincolato dall’esercizio di un dominio che non riconosce limiti a se stesso.

Nelle Leggi Platone scrive del tiranno che governa con saggezza. Ma può davvero esistere un “tiranno buono”?

Bibliografia:

1.  Massimo Bontempelli, Costanzo Preve, Nichilismo Verità Storia, Pistoia, Editrice C.R.T. 1997
2.  Mario Vegetti, Scritti con la Mano Sinistra, Pistoia, Editrice Petite Plaisance 2007  


(Pianeta Cultura, Filosofia, Numero 16, Giugno 2019) 

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