Fare la Verità

 


Contro la postverità

In Fare la Verità, Maurizio Ferraris muove la sua riflessione dal decimo libro delle Confessioni di Sant’Agostino, in cui il filosofo di Tagaste scrive espressamente “Voglio fare la verità nel mio cuore, davanti a Te, per iscritto, di fronte a molti testimoni”. Fare la verità davanti a Dio è ridondante, considerato che Dio, se c’è, già sa tutto, in quanto è onnisciente. Fare la verità davanti a Dio, per iscritto, indica invece la volontà di lasciare una testimonianza documentale della propria conversione e della propria fede, che serva, in qualche misura anche a “molti testimoni”, cioè agli altri credenti, che possono così apprendere la gratitudine di Agostino che ha finalmente trovato il suo Dio. Non bisogna dimenticare che Le Confessioni sono un testo scritto in forma autobiografica, in una sorta di diario dell’anima, nel quale l’autore si confessa prima di tutto a se stesso, per comprendersi nell’intimità del suo cuore, per poi - dopo aver fatto luce sulla sua interiorità, e nell’animo suo - raccontarsi agli altri. Dunque Dio, che sa già tutto, è sullo sfondo di questa narrazione, ma pur sempre presente, in quanto è da Dio che la verità discende, ed è a Lui che essa va riconsegnata. L’espressione che dovrebbe colpire di più è, però, quel fare la verità, piuttosto che dire la verità o scrivere la verità. Ed il motivo per il quale Agostino sceglie di fare la verità è strettamente legato al valore testimoniale della verità, che in se stessa è un fatto, qualcosa che accade, ed è tangibile nella sua storicità e determinazione. La verità – nel caso di Agostino la sua conversione tribolata al cattolicesimo – non è un qualcosa che possa prescindere dalle azioni e dai comportamenti degli agenti la verità. La verità, prima di poter essere raccontata, detta e scritta, a parole, deve essere qualcosa di forte che cambi i comportamenti, e che si traduca nell’agire differente, nei modi di essere diversi rispetto a quelli di prima. La verità ha una tale portata rivoluzionaria da avere il potere di sconvolgere la vita di chi la pratica e di chi la agisce sul piano della sua propria esistenza. Proprio come è accaduto ad Agostino, la cui vita personale è stata completamente ribaltata e sconvolta, intimamente ma anche esteriormente, sul piano dell’agire, dalla sua conversione, dal suo aver fatto la verità. Che quindi non può limitarsi a qualcosa che si può più o meno semplicemente dire, ma che può raccontare qualcosa soltanto dopo essere stata vissuta pienamente nella carne e nella storia dell’uomo. La verità è testimonianza, in se stessa, di un’esperienza di vita. Non è un manuale della felicità. Spesso, anzi, diventa difficile viverla per l’impegno che richiede nel renderle testimonianza. Ed è, questa, la storia che accomuna tutti i più grandi filosofi del pensiero occidentale, che hanno vissuto in modo conforme, e pienamente tale, alla loro verità: Socrate; Agostino; Nietzsche. Ma non vanno dimenticati grandi statisti che hanno dato la vita per la loro verità: Aldo Moro; Giovanni Falcone; Paolo Borsellino. E quanti sono impegnati ogni giorno, concretamente, nella difficile ed ardua testimonianza della verità, che diventa per ciò stesso un fatto incarnato nell’esistenza individuale di chi se ne fa portatore. Fare la verità, dunque, per Agostino, divenuto ormai problema a se stesso, come dichiara nelle Confessioni, è un fare cose con le parole che, in quanto tali, già rappresentano dei fatti, per raccontare altrettanti fatti e avvenimenti ormai accaduti, e che dunque sono storia in se stessi. L’essere testimone della verità induce quindi a voler dire la verità e a dover trovare un mezzo idoneo per raccontarla e testimoniarla anche agli altri. Questo perché la verità che non sia condivisa entro una comunità di parlanti non avrebbe alcun senso. Il fare la verità, invece, acquista tanto più significato, quanto maggiore diventa la sua possibilità di condivisione entro una comunità di persone pronte ad accoglierla anche come propria verità. Il mezzo utilizzato, la tecnica – diremmo, oggi, la tecnologia – non è pertanto indifferente ai fatti ontologici che si vogliono rappresentare, né può esserlo rispetto ai soggetti che tale verità devono recepire ed accogliere. Nel movimento, o passaggio, dall’individuale al collettivo, la verità ontologica dei fatti passa ai soggetti che la comprendono attraverso un’epistemologia del reale, che già in sé implica una rappresentazione modellata secondo paradigmi di conoscenza e di sapere. Tutto ciò per uno scopo teleologico ben preciso, che potrebbe anche essere semplicemente fine  a se stesso, nell’intento di rappresentarsi come bisogno di condivisione, di narrazione e di pubblicità della verità di cui si è portatori. Il fare la verità utilizza, perciò, molteplici passaggi differenti, che vanno dall’essere testimoni del fatto, al volerlo raccontare, e che dunque disegna il passaggio dall’ontologia del reale alla sua tecnologia, per diventare un’epistemologia e per rintracciare un’escatologia teleologica della narrazione di verità. Questo movimento che implica l’emergentismo della verità, come qualcosa che accade semplicemente, impone la conoscenza dei differenti passaggi del fare la verità, dall’ontologia – come ciò che è, perché c’è, succede – alla metafisica – come ricerca delle cause, per comprendere – alla tecnologia – come definizione dei mezzi utilizzati per raccontare e dire la verità – fino all’epistemologia – che comprende la conoscenza ed il sapere attorno alla verità – e all’escatologia – come teleologia della verità. A che serve, difatti, la verità? Ogni movimento del fare la verità implica uno scopo, un fine implicito, che deve sempre diventare esplicito al termine del percorso. Un po’ come un voler uscire faticosamente dalla caverna platonica della propria anima per poter finalmente giungere alla luce, in superficie, con il compito testimoniale di raccontare agli altri la propria personale esperienza di vita, che soltanto in questo modo può acquistare un senso vero, ed essere confermata, a tutti gli effetti, nel suo valore di verità comunitaria, e perciò stesso, condivisa con gli altri. La verità, che è condivisione comunitaria, e mai visione e fruizione solipsistica di un dono della grazia divina – come nel caso di Agostino – implica sempre un movimento di ricerca, un andare verso, che diventa un fare, un agire, un impegnarsi quotidiano nella propria vita per continuare a rendere testimonianza a quei valori in cui crediamo. L’affermazione di questo movimento, che è un impegno esistenziale, non può che essere agito come azione della comunità, che deve, a sua volta, far fronte alla post verità di facile consumo, oggi imposta dai social, e che diventa un veloce accettare o cliccare, comodamente seduti dietro le proprie postazioni informatizzate, prendendo per buono tutto quanto ci viene somministrato online dalle piattaforme. Un riandare ai testi, alla lettura degli autori, rileggendone il pensiero, e ripensandolo a nostra volta, per  considerarne tutti gli aspetti, secondo la lezione di Nietzsche del pensare come un ruminare, potrebbe costituire un antidoto importante ed imprescindibile per andare ben attrezzati e più consapevoli alla scoperta meno ingenua del mondo delle nuove tecnologie informatiche che trasmettono sovente delle post verità. Con più strumenti critici e conoscenze che si appoggiano alla tradizione possiamo facilmente decriptare quelle fake news che rischiano di sommergerci, facendoci perdere la bussola dell’orientamento verso i saperi veri e duraturi dell’umanità. La tecnologia deve tendere la mano all’umanesimo e si deve a sua volta umanizzare. Soltanto così essa potrà diventare un veicolo di saperi e di verità testimoniali da dire e da raccontare ancora una volta agli altri, nostri simili, e in quanto tali a loro volta desiderosi di sapere e di conoscere la verità.


Bibliografia:

1. Agostino, Le Confessioni;

2. Maurizio Ferraris, Fare la Verità, Il Mulino, Bologna 2022.


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