Le Lettere di Etty Hillesum
Dopo aver scritto il suo Diario,
Etty Hillesum mette mano alle Lettere, che raccontano i suoi pochi mesi di
prigionia del 1943, quando venne deportata nel campo di concentramento di
Westerbork, prima di essere trasferita ad Auschwitz, dove sarebbe morta, insieme
ai suoi genitori, e al fratello Mischa, il 30 novembre.
Etty scrive le sue prime lettere a
Julius Spier, che morirà, invece, prima di essere deportato, si pensa per una
malattia polmonare. Molte sue missive, del periodo successivo sono, così, indirizzate
ad Han e ad alcuni amici, e poi ai suoi genitori e ai fratelli, prima che anche
loro fossero vittima di uno dei rastrellamenti tedeschi, e non finissero a
Westerbork, dove, con sua grande gioia, Etty avrebbe avuto la possibilità di
intrattenersi con loro ancora un po’, prima della morte.
Etty ha alcuni amici a Westerbork, tra questi ci sono Osias Kormann e il giornalista Philip Mechanicus, di cui parla in alcune delle sue lettere.
Etty ha alcuni amici a Westerbork, tra questi ci sono Osias Kormann e il giornalista Philip Mechanicus, di cui parla in alcune delle sue lettere.
Nelle sue pagine, la Hillesum non
sembra mai disperata. Appare stanca, certamente, e lacerata intimamente dall’orrore
che la avvolge. Ma mai, dalle sue parole, traspare lo sconforto di chi pensa di
non farcela, e che sia ormai finita. Anzi. Etty invoca un mondo nuovo, da
ricostruire completamente, quando quell’inferno avrebbe avuto termine. E si
immagina attiva protagonista del futuro, di cui è certa di poter essere parte
operante. Spera di poter trarre in salvo anche suo fratello Mischa, che appare
molto provato dall’esperienza, e che non riesce a distaccarsi fisicamente, ed
emotivamente, dai suoi genitori. Ed è convinta di poter salvare anche loro
dalla morte che pure, razionalmente, si capisce non debba dar scampo a nessuno.
Davvero, dalle sue lettere,
traspare la banalità del male, di cui avrebbe poi scritto Hannah Arendt, un po’
di anni dopo, in occasione del processo ad Adolf Eichmann.
I deportati nel campo di
Westerbork, dove sarebbero state anche Anna Frank ed Edith Stein, vengono
costretti ad abbandonare tutti gli effetti personali, a spogliarsi, anche
fisicamente, dei propri vestiti, e sono obbligati ad indossare una tuta a righe
bianche e nere. Sul braccio destro viene loro marchiato a fuoco un numero. E,
da ora innanzi, verranno identificati con quel numero, pronunciato
rigorosamente in tedesco. Dovranno dimenticare i loro nomi di battesimo. Ma se,
quando verranno chiamati, non risponderanno all’appello, verranno picchiati a
sangue. I deportati vivono nelle baracche, con tavole di legno come letti, le
camerate, e con al centro un altro tavolo di legno dove si mangia. I letti di
legno sono stati sottratti alla linea Maginot, al confine con la Francia, dopo
l’invasione tedesca del 1940. Per pranzo e cena vengono, di solito, serviti
cavoli rossi, con poche, rare, varianti, che comprendono l’indivia, le patate e
i ceci. Le porzioni sono minime, e, sostanzialmente, si fa la fame. Infatti,
nel giro di pochi mesi, gli internati assumono il tipico aspetto dello scheletro,
tutto pelle ed ossa. Etty scrive spesso ad alcune amiche, per pregarle di
inviare loro qualcosa da mangiare e vestiti pesanti, perché a Westerbork fa
freddo e si fa la fame. Nel campo sono molto diffuse la febbre e la
dissenteria. E molti, soprattutto i più anziani, muoiono per il freddo, per la
fame, e per le malattie gastroenteriche contratte nel campo. Ogni martedì parte
da Westerbork un treno, che trasferisce i deportati scelti, di volta in volta,
ad Auschwitz, dove è possibile che accada tutto quanto non è ancora accaduto a
Westerbok. Cioè la morte con i gas asfissianti nelle docce, o nei forni
crematori, che perfezionano l’industria bellica, inventata e
sperimentata dai tedeschi.
Etty torna due volte a Westerbork,
e, la seconda volta, nel 1943, decide di rimanere. Inizialmente fa parte del Consiglio
Ebraico, ma, quando il Consiglio viene sciolto, Etty diventa prima una semplice
ospite, poi una deportata come tutti gli
altri, perché non accetta di dover scampare al destino degli altri
Ebrei, compresi i suoi stessi genitori e fratelli. Inizialmente presta aiuto e
soccorso ai più bisognosi, riuscendo a scorgere anche nei loro volti quelli di
Cristo sofferente. Nelle giornate di sole, guardando su nel cielo azzurro, non
riesce a non pensare che anche quell’inferno avrà una fine, perché il bene
trionferà comunque, sopra tutto. E perché quell’azzurrità le dà la certezza
dell’esistenza di Dio. Probabilmente, senza questa fede salda, Etty, come molti
altri, avrebbe rischiato di perdere il senno, nell’esperienza del campo.
Invece, la fede in Dio la sorregge, e le dà la forza, permettendole persino di
essere di aiuto ai più bisognosi: gli anziani, le mamme e i bambini. Ed infine i
suoi stessi genitori, deportati insieme al loro figlio Mischa, il più
psichicamente fragile dei tre fratelli Hillesum. Solo il fratello Jaap si
sarebbe, inizialmente, salvato dalla deportazione. Arrivando a Westerbork nel
1943. Ma, mentre sembrava che ce l’avrebbe fatta, morì di stenti per lo
sfinimento dei successivi trasferimenti, prima a Bergen-Belsen, e poi, dopo la
liberazione russa, per il lungo viaggio costretto a fare in treno.
Durante la deportazione dei suoi
genitori a Westerbork, Etty apprezzerà molto la calma imperturbabile del padre,
che non si creava false illusioni su eventuali ipotesi di salvezza, ma che anzi
sperava che tutto finisse al più presto, per poter raggiungere, finalmente, la
pace assoluta, lontano da tutto quel dolore, in un mondo di perfezione divina.
Etty, invece, continuava a sperare
fino alla fine, di poter rimanere accanto ai suoi genitori e a suo fratello, e
di poter scampare alla morte, sopravvivendole. Le sue Lettere si chiudono,
infatti quando, lasciando il campo di Westerbork, un terribile martedì, che
avrebbe visto la deportazione dell’intera famiglia Hillesum ad Auschwitz,
insieme a tantissimi altri Ebrei, Etty lasciava cadere dal treno della morte
una cartolina, per raccontare che avrebbero lasciato il campo cantando, in un
ennesimo anelito di libertà e di esaltazione della vita.
Ma, purtroppo, da Auschwitz,
nessuno della sua famiglia avrebbe fatto più ritorno. Nemmeno lei. Come tutti
gli altri Ebrei che, la luce del sole, e quel cielo azzurro, non li avrebbero
visti mai più.
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