Olocausto - Per non dimenticare -
Etty Hillesum
Il Circolo Culturale La
Merlettaia, ha voluto, attraverso lo sguardo di altre donne, raccontare
l’esperienza della grande donna che è stata Etty Hillesum. Lo ha fatto con un
libro, intitolato Forme del Destino, e dedicato proprio alla scrittrice del
Diario. La pubblicazione, che risale al 2005, per le Edizioni Palomar di Bari,
è una raccolta collettanea di studi di alcune note intellettuali foggiane, come
Antonietta Lelario, fondatrice del Circolo La Merlettaia; Clelia Iuliani; Pia
Marcolivio; Anna Potito; Pia Colabella; Katia Ricci; Rosy Daniello; Tina Soldo.
Il testo si impreziosisce della Prefazione di Francesco Fistetti, il quale
scrive: “Leggendo il libro, penetriamo così in un duplice universo; quello
della Hillesum e quello che emerge dall’orizzonte prospettico che è proprio di
ognuna delle autrici, inscrittto in una storia di vita peculiare e
inconfondibile. I due universi si intersecano e quasi risuonano l’uno
nell’altro”.
La pubblicazione prende il via con
la riflessione sul rapporto dell'Occidente con la realtà del dolore. Rapporto
che, da subito, appare controverso. Se l'orientale accetta l'esperienza del
dolore come parte integrante della vita stessa, l'occidentale fa di tutto per
allontanarlo. Non riconoscendo che dolore sono anche la malattia, la delusione,
l'abbandono, la rabbia, l'insoddisfazione, l'Occidente ha una visione
idealizzata dell'esistenza e dell'amore, in cui il dolore non deve esserci per
non intaccarne la purezza. Così, gli occidentali non sanno vivere né amare.
Etty Hillesum, Ebrea Olandese
morta ad Auschwitz il 30 Novembre del 1943, a soli trent'anni, ha saputo
umanizzare il dolore, nelle Lettere che ci ha lasciato, e nel suo Diario. La
sua parola umana è "speranza", come per Maria Zambrano; è "sacro",
come per Simone Weil; è "interesse attivo per la politica", intesa
come "vita comunitaria", come per Hannah Arendt. Non è, il suo, un
annuncio di morte, a cominciare dalla "morte di Dio" di cui parla
Nietzsche, per superare la quale l'uomo deve diventare Dio a se stesso.
La fede di Etty è la vita, nel suo
senso più alto e fecondo, persino contro la durezza reale dei campi di
sterminio, dove essa viene negata ogni istante, insieme alla dignità più
autentica di ogni essere umano.
Non dell'Ebreo, del dissidente
politico, del delinquente comune, né dell'handicappato, dell'omosessuale o del
comunista, vuole raccontare Etty. Ma dell'uomo, nella sua universale categoria.
E, anche se fosse di razza ariana, ella non smette, proprio come scriveva Anna
Frank, di credere in lui.
La testimonianza del Diario di
Etty Hillesum può essere accostata alle Confessioni di S. Agostino. Perché
Etty, come Agostino, cerca un dialogo interiore con Dio che, a tratti, si fa
silenzioso e pare spegnersi. Ma Etty sa di poterLo ritrovare sempre, nella sua
coscienza, che reclama Giustizia, Verità, Misericordia. Così le sue pagine
dolorose, diventano una terapia e si fanno Consolazioni. Senza scrivere la
Hillesum, probabilmente, sarebbe impazzita, nell’inferno di Auschwitz. E invece
decide di raccontare il suo dolore, attraverso mille, infinite pagine di
sofferenza, nelle quali rappresenta l’apice della cattiveria umana, raggiunto
nei lager tedeschi.
Il Diario testimonia anche il
potere terapeutico della scrittura, che è sempre, e prima di tutto, un fare
outing, esternando se stessi, per riavvolgere i fili di qualcosa che, sembra,
essere sfuggito di mano, dalle vite sofferenti degli esseri umani.
Pertanto, raccontare, a parole o
per iscritto, è la prima terapia del dolore di vivere. Dello smarrimento
dell’uomo contemporaneo, profondamente segnato dalla terribile esperienza della
violenza senza motivo, praticata da una razza sull’altra, nella seconda guerra
mondiale.
Etty Hillesum è stata, perciò, una
testimone di quei fatti, prima di tutto vivendoli sulla sua stessa pelle, ed in
secondo luogo raccontandoli a tutti noi, che li leggiamo, inorriditi, più di
mezzo secolo dopo.
Chi le si accosta lo fa a partire
dal suo stato d’animo personale e, in ogni caso, vi trova una consolazione alla
tristezza, al male di vivere, alle problematiche del quotidiano, alle
difficoltà familiari, al dolore del disagio o dell’handicap, all’abitudine,
piuttosto diffusa ormai, di non essere mai soddisfatti di ciò che si vive o di
ciò che si ha. Ma la grandezza del Diario è nell’essere assimilabile anche ad
una forma di sublimazione del dolore, che Schopenhauer aveva, ad esempio,
individuato nell’arte.
Una pittrice tedesca,
contemporanea di Etty, Charlotte Salomon, ebbe il suo stesso destino, e
rappresentò nei quadri che dipingeva il suo cammino esistenziale di dolore.
Ella scrisse, come la Hillesum, un Diario che raccontava l’orrore di Auschwitz,
dove venne deportata nel ’43, incinta di pochi mesi, e uccisa nelle camere a
gas.
Alberto Mieli
Un altro testimone, ancora
vivente, dell'olocausto, cui è sopravvissuto, è Alberto Mieli. Romano di
nascita, di famiglia Ebrea Sefardita, fu catturato e torturato dai nazisti, e
successivamente deportato ad Auschwitz, a soli diciassette anni, per essere
stato trovato in possesso di due francobolli della Resistenza. Il primo
dicembre l'Università di Foggia gli ha conferito la Laurea ad Honorem in
filologia, letteratura e storia. Anche Mieli racconta l'orrore vissuto per
scampare alla fabbrica della morte. La fame, il freddo, il dolore delle
percosse, la violenza degli estenuanti interrogatori della Gestapo, i bimbetti
uccisi crudelmente, con il gioco del tiro al bersaglio, dopo essere stati
strappati alle loro madri, la necessità di mangiare topi morti per non soccombere
alla fame, la vista orribile di giovani donne stuprate dai gerarchi delle SS, o
di figli costretti a picchiare i genitori, per divertire i soldati tedeschi.
Mieli ha spiegato ai giovani che è necessario costruire un mondo di pace, senza
odio, rancore o violenza. In cui il dialogo possa davvero rappresentare un
valido presupposto per fondare la convivenza accogliente delle diversità, nel
rispetto reciproco di tutti gli esseri umani.
Dio non era presente nei campi di
sterminio. Ma c’erano i giusti. Quelli ai quali molti sopravvissuti devono la
vita. Perché, chi si è salvato da quell’orrore, non può attribuirne il merito
solo a se stesso. Sempre c’è stato qualche giusto che ha rischiato la propria
vita, per mettere in salvo il fratello, condannato a morte.
L’esperienza dell’orrore dei campi
di concentramento, fa comprendere quanto sia importante la solidarietà tra
esseri umani. Nessuno può farcela da solo, nell’inferno di Auschwitz, come
nella vita ordinaria di ogni giorno. Per quanto si voglia negare l’importanza
dell’altro, tutti siamo indissolubilmente legati dalla storia, che ci accomuna
ad un unico destino.
Il futuro dipende dalla qualità
del nostro stare insieme nel presente. Può essere un futuro di morte, se la
crudeltà e la violenza prendono il sopravvento. Ma si può sperare in un mondo
di pace, se a guidarci saranno i valori dell’amore e della non-violenza.
Il “mai più” deve muovere dalle
coscienze. Dal senso del dovere verso l’altro; dalla nostra responsabilità; dal
saper stare al mondo nel rispetto delle differenze, e nella fraterna, reciproca
accoglienza; dall’anteporre il dialogo alla sopraffazione del più debole.
A settant’anni di distanza da
quegli accadimenti, è lecito cominciare a chiedersi cosa ne sarà del mondo,
quando gli ultimi testimoni sopravvissuti ancora viventi non ci saranno più.
Quando a raccontare quei fatti terribili non saranno più le vive testimonianze
di chi ha subito la prigionia nelle fabbriche della morte, e non resteranno
altro che i silenziosi libri di storia. Il rischio, è che la memoria di
quell’orrore si spenga pian piano. E i lager cadano nell’oblio della
dimenticanza. Perché, come scriveva Primo Levi, coloro che non hanno memoria
del passato sono condannati a riviverlo.
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