Il counseling breve orientato all’azione
Il counseling è una pratica di
consulenza psicologica, proveniente dall’insegnamento di Carl Rogers[1],
psicologo statunitense, noto per la terapia non direttiva, centrata sul
cliente.
Sempre più diffuso negli ultimi
anni, anche in Italia, il counseling è fondato su un approccio clinico,
orientato al dialogo interattivo e partecipante, di tipo assertivo, tra un
terapeuta-consulente e il suo paziente-cliente.
Le strategie della consulenza
psicologica superano la tradizionale analisi psicoanalitica freudiana, basata
sul racconto emotivo dei vissuti e del passato, nelle sue espressioni
patologiche e traumatiche, e vanno ad affrontare direttamente il cuore dei
problemi, per tentare una loro risoluzione attraverso il problem solving e
l’orientamento all’azione e al successo.
Spesso una terapia analitica
dell’inconscio richiede anni di trattamento e di indagine per giungere alla
risoluzione delle questioni cruciali che impediscono al paziente di vivere
un’esistenza serena e dignitosa nel presente.
Vi sono, tuttavia, eventi
importanti che non possono aspettare, perché giocando sui tempi lunghi
finirebbero comunque per approdare ad un insuccesso.
Il counseling viene preferito
all’analisi psicoanalitica in tutte quelle situazioni che richiedono un
intervento tempestivo, per la loro risoluzione. O anche nel caso di clienti che
non vogliono esporsi emotivamente, raccontando troppo di se stessi e della loro
vita.
I tempi ristretti della terapia fondata sull’approccio orientato all'azione consentono al terapeuta counselor di risolvere entro lo spazio contenuto tra le cinque e le dieci sedute. Ma nel caso del counseling cosiddetto “breve” addirittura la soluzione può essere rinvenuta dopo qualche seduta, da una a tre. In alcune situazioni, il cliente trova la soluzione anche dopo una sola seduta, che gli permette di riflettere e di decidersi per l’azione più corretta da intraprendere.
Una buona regola da rispettare,
difatti, è quella della libertà del cliente, che decide responsabilmente, e in
piena coscienza, quando dover intraprendere un percorso di counseling, e quando
dover abbandonare il terapeuta. Quest’ultimo, che non è necessariamente un
medico, ma che può essere anche un laureato in psicologia, in filosofia, o
possedere un qualunque titolo di studio in scienze umane, o in altro ambito, che
ha affrontato un percorso di specializzazione di tre anni di studio, deve avere
come obiettivo quello di rendere il più velocemente possibile indipendente dal
suo sostegno il paziente stesso, che dovrà camminare sulle sue gambe, fidandosi
di sé.
Uno degli assunti fondamentali del
counseling è che il cliente sia esperto della sua vita, e che sappia decidere
autonomamente ciò che è meglio. Per agevolare questo percorso di affrancamento,
il counselor deve rispettare la persona del cliente, sostenendolo senza
interferire nelle sue scelte, e lasciandolo libero di fare qualcosa, quando
abbia deciso come farlo. Il cliente ha, difatti, una sua dignità di persona,
che va tutelata sopra ogni altra cosa.
Il problema nasce, spesso, dalla
coazione a ripetere azioni che portano all’insuccesso e che, generalmente, si
pongono in essere adoperando cliché comportamentali ben precisi, senza avere la
consapevolezza di farlo.
Il counselor ha, per questo
motivo, il compito di far emergere questa incongruenza, spezzando il circolo
vizioso fallimentare, e spingendo il cliente a “fare qualcosa di diverso e di efficace”
per orientarsi al successo.
L’approccio di counseling più
praticato, anche in Italia, è quello della scuola di Palo Alto, e di Paul
Watzlawick, autore insieme a Gregory Bateson dei cinque assiomi della
comunicazione[2], il
più importante dei quali è certamente quello che recita che “non si può non comunicare”,
facendo intendere che anche il silenzio è una forma di comunicazione, che va
rispettata, essendo la più difficile da praticare e da sostenere.
I counselor preparati, e con
esperienza, sanno infatti che l’ascolto silenzioso delle problematiche del
cliente è fondamentale per il successo della terapia. Soprattutto, bisogna
cercare di non essere troppo direttivi, evitando ogni forma di giudizio, sui
fatti e sulle persone.
Naturalmente anche la capacità di
interrompere, nel caso si assista ad un monologo, fa parte della competenza
specialistica del professionista, che non deve necessariamente interloquire
verbalmente, per farlo, ma può utilizzare una tecnica non verbale, come un
battito d’occhi, o una mano alzata, ad indicare di avere qualche cosa da dire,
o da eccepire, interrompendo il flusso dei pensieri e delle parole del suo
interlocutore.
Capita spesso, nelle sedute di
counseling, di assistere a veri e propri soliloqui, che procedono in maniera
scomposta, rischiando di prendere più direzioni contemporaneamente. La capacità
del counselor deve, in questi casi, riguardare l’abilità a riportare la
conversazione entro i limiti giusti e definiti della seduta, senza sfociare
nelle dinamiche psicoanalitiche, sempre pronte ad affacciarsi all’orizzonte,
quando vengono toccati i nervi emotivi ed affettivi della vita del cliente.
Così come vanno gestite le
emozioni e le parole disordinate e scomposte che il paziente sensibilmente
turbato pronuncia, vanno rispettate altrettanto le pause e i silenzi eventuali,
che possono ricondurre ad un bisogno di riflessione, o anche ad un momentaneo
rifiuto della comunicazione.
Chi cerca conforto in una seduta
di counseling, difatti, non ha un vissuto patologico di tipo psichico, e non
deve agire le dinamiche della lettura e dello studio del suo passato
esistenziale.
Se poi, nel corso degli incontri,
si dovessero palesare altre difficoltà, sarà il counselor stesso ad orientare
il cliente verso una terapia psicoanalitica, con uno specialista psicologo o
psichiatra. Non è un caso che l’interlocutore del counselor venga definito
“cliente” piuttosto che “paziente”. Egli è, difatti, inteso come una persona
che cerca sostegno in un momento di difficoltà della sua vita. Altra cosa è la
terapia clinica di tipo psicologico e/o psichiatrico.
Il counseling, piuttosto
che una terapia, è una relazione di aiuto, e come tale si fonda sulla
comunicazione, così come ce la prospettano gli studiosi di Palo Alto. Saper
comunicare correttamente è già un primo passo, dunque, verso la possibilità di
comprensione reciproca, e di corretta impostazione della interazione, che è
comunque fondata sul dialogo reciproco.
Il counseling, secondo questo
approccio, è costituito da quattro passi: definizione del problema; eccezioni e risorse; progettazione
del futuro e strategie di Walt Disney; azione.
Il counseling breve, proposto da
John Littrell [3]secondo
il modello di Palo Alto, è orientato alla soluzione e al successo operativo, ed
è focalizzato sugli aspetti positivi e sulle risorse che il cliente può mettere
in campo, per la progettazione del futuro e delle azioni utili a risolvere le
questioni di interesse.
Nel counseling breve i noti
quattro passi possono ridursi fino a due, passando immediatamente dalla
definizione del problema all’analisi delle risorse potenziali da mettere in
campo per risolvere la situazione problematica.
Nella sua forma tradizionale, il
terapeuta deve anzitutto comprendere il problema; poi fare leva sulle eccezioni
e sulle risorse del cliente; infine individuare le possibili soluzioni,
puntando all’esperienza del cliente stesso, e mettendo in atto la strategia del
sognatore, del realista, e del critico; in ultimo egli deve progettare, insieme al
cliente, possibili interventi futuri, e azioni concrete, che possano essere risolutive
delle situazioni problematiche portate all’attenzione del terapeuta.
Nel progettare insieme il futuro,
molto importante è il passaggio relativo alla strategia di Walt Disney, in cui
si chiede al paziente di immaginare come potrebbe essere la sua vita se avesse
già risolto il problema, proponendogli anche la postura e l’atteggiamento
comportamentale che assumerebbe in tal caso. Questo primo passo è relativo al
sognatore, e al cosiddetto “miracolo”, sia perché il paziente si vede già
proiettato nel suo futuro, così come egli lo desidera e vuole, ma anche perché,
ovviamente, egli immagina che sia avvenuto un miracolo esistenziale, nella sua
vita, che abbia fatto d’un tratto scomparire il problema, portandolo a vivere
nella condizione desiderata.
Il secondo passo della strategia
di Walt Disney è quello del realista. Se non si vuole incorrere
nell’insuccesso, bisogna aspirare a progetti realizzabili che siano anche
possibili nel contesto in cui ci si trova a vivere. Il realismo, insieme alla
capacità di sognare e di immaginare un futuro possibile, è utile a non scontrarsi
con una realtà nella quale i desideri si dovessero rivelare soltanto dei
progetti utopici. Perché, in questo caso, l’insuccesso sarebbe prevedibile in
partenza, e non deriverebbe da un difetto di progettazione o di azione, quanto
da un’effettiva mancanza di adesione al principio di realtà, nel valutare quale
sia l’ambiente nel quale ci si deve poter muovere per realizzare gli obiettivi proposti.
Infine, l’ultimo passo di questa
strategia, è quello del critico. Se si vuole ottenere il successo operativo,
bisogna saper valutare i punti di forza e di debolezza dei progetti che si
intende mettere in atto.
L’insuccesso, difatti, può
derivare anche da un’erronea valutazione dei rischi dell’azione, o dalla
mancata osservazione dei pregi e dei difetti della scelta operata.
[1] Carl
Rogers fu il primo ad introdurre il termine “counseling” nel 1951.
[2]
I cinque assiomi della comunicazione della Scuola di Palo Alto sono: non si può
non comunicare; esiste una metacomunicazione che distingue contenuto e
relazione; la natura di una relazione dipende dalla punteggiatura della
sequenza di eventi; in una comunicazione esistono i livelli digitale e
analogico, di modo che la comunicazione passa soprattutto per i messaggi non
verbali che vengono trasmessi; in una comunicazione l’interazione è
complementare o simmetrica.
[3] John
Littrell, Il Counseling Breve in Azione.
Commenti
Posta un commento