Ecologia dell'immaginario televisivo




“Sarebbe troppo facile ed errato “odiare” Maria De Filippi per una soggettiva, più o meno condivisibile antipatia verso il modo in cui presenta, perché magari ha un aspetto e una voce androgini, veste e si atteggia in maniera poco femminile, perché è goffa sui tacchi a spillo e in abito da sera, o per un qualche retroscena di vita privata che ne svaluterebbe la reputazione pubblica. Tutto questo non mi interessa, non mi appartiene. Maria De Filippi, per me, è l’epicentro, lo snodo nevralgico, il sole nero di un più generale assetto delle immagini e delle parole spettacolarizzate, che è come una ragnatela, la propagazione di un’eco da un orizzonte di potere più o meno centralizzato, che ha trasformato tutti in valvole e pistoni di una macchina che gira a vuoto. Senza più linee guida, finalità, sequenze logiche, storia e sviluppo reale delle emozioni. Il mio approccio alle ore e ore di programmazione delle sue trasmissioni - Uomini e Donne, Amici, C’è posta per te, Italia’s got Talent - che solo una enorme magnanimità definirebbe ancora di “intrattenimento”, attinge alla severa tipologia di domande che solo la filosofia sa porre”. Questo l’incipit dell’Introduzione di Maria De Filippi Ti Odio. Per un’ecologia dell’immaginario televisivo, edito nel 2011 da Caratteri Mobili di Bari, per la collana Formiche Elettriche, l’ultimo libro di Carmine Castoro. Castoro, giornalista professionista e autore televisivo, ha firmato numerosi programmi per il palinsesto notturno della Rai e per canali Sky. È stato inviato e opinionista di numerosi quotidiani e magazine nazionali, e attualmente si occupa di filosofia e media per il settimanale Il Futurista. Dopo Roma Erotica, Giù dove fioriscono i sogni, e Crash TV filosofia dell’odio televisivo, Castoro ripropone, in questa analisi del mondo virtuale, la sua impietosa disanima culturale sul tubo catodico che sembra abbia stregato la gioventù del postmoderno. In un’epoca, apparentemente senza dei, ma che finisce invece per idolatrare tutto e tutti, persino i conduttori dei programmi televisivi che fanno audience, sembra quasi di non esistere affatto al di fuori del mondo della celluloide. E così leggere un libro è una punizione, mentre apparire a tutti i costi sullo schermo, entrando nelle case degli italiani, è premio e apprezzamento per le proprie doti, presunte o reali, ed espressione di talento artistico. Programmi come Amici, Uomini e Donne, C’è Posta per Te, Italia’s Got Talent, o come il Grande Fratello, rappresentano per questi nuovi prototipi della spettacolarizzazione tout court, l’unica occasione per uscire dal proprio isolamento esistenziale e per sentirsi vivi. Ma bisognerebbe cominciare a domandarsi perché questi giovani sentano ossessiva la necessità di apparire, di calcare le scene. Perché non sappiano più esistere senza popolarità. Senza il teleobiettivo puntato addosso ventiquattro ore su ventiquattro. Perché per percepirsi reali abbiano l’urgenza di spiattellare ai quattro venti le loro finte relazioni sentimentali, condite di sorrisini e lacrimucce, utili a mettere in scena emozioni che non sapevano nemmeno di possedere con tale forza, se non le avessero così esteriorizzate e svendute all’audience televisivo. Castoro chiama oscena questa spettacolarizzazione del falso, attorno alla quale si muovono capitali miliardari e macchine per far soldi, ad un prezzo molto alto, quello della svendita della propria coscienza critica, che si ammanta di un mito ormai solo demagogicamente svilito ed adoperato, la comunicazione. Ma la comunicazione, che tale vuole apparire, è falsa e strategicamente orientata quando non conduce l’essere umano alla comunione che serve a produrre il senso della comunità. Nel mondo catodico la comunità cede, al più, il passo alla collettività, che smorza ogni afflato reale nel mondo luminescente ed evanescente dell’assenza dei sentimenti veri. Ed il capitalismo e il feticismo delle merci di cui parlava Marx nel Capitale cede, nel mondo televisivo, il posto al feticismo dell’immagine, che perde la sua autenticità nell’immaginario collettivo. E allora davvero bisognerebbe occupare le banche e far saltare la tv per cambiare le cose, come ci ricorda Luciano Bianciardi. Il virtuale viene invece, col passare del tempo, vissuto come unica dimensione della vita vera. Vita di un gregge belante, in cui esistere è l’esatto opposto del cancellarsi, come si potrebbe fare addirittura di un profilo su facebook, così, semplicemente, con un colpo di pulsante, in un click. Ed è assurdo che proprio un network che prende il suo nome da due parole così abusate oggi, come faccia e libro, possa illudersi di fare a meno del tutto proprio della visibilità degli sguardi vis à vis, e della lettura di un buon libro che induca a pensare e riflettere sullo status quo. Perché nel mondo virtuale di vero c’è ormai ben poco. Ed è come stare alla finestra, nell’incapacità maturata di scendere in strada, per mescolarsi alla folla reale, alla gente in carne ed ossa, per uscire dal luccichio di un’esistenza dorata e fasulla. La paura della propria personale solitudine induce così i giovani inebetiti dal catodico ad entrare nel mondo patinato che ha sostituito agli dei dell’antichità nuove divinità dell’immaginario. Maria De Filippi è una di queste, la grande madre, la dea cui rivolgersi per alleviare le proprie pene. E Maria sa interpretare questo ruolo che la scenografia le assegna in ogni programma, col silenzio, l’accondiscendenza, l’ascolto. Maria fa, in onda, quello che lo psichiatra farebbe a pagamento. Lei lo fa sulla scena, platealmente; il medico compirebbe l’ascolto paziente tra le silenziose mura del suo ambulatorio. Maria promette popolarità. Lo psichiatra potrebbe indurre la guarigione a costo di cambiare i viziosi atteggiamenti mentali. E forse questa seconda via risulterebbe molto più impegnativa e poco premiante in termini di popolarità. Anzi, è decisamente impopolare chi denuncia espressamente il proprio disagio a vivere nella contemporaneità. Mentre è molto più semplice, e pragmaticamente utile, volgere il dolore in spettacolo distraente, in divertissement, direbbe Pascal. Perciò, fatti due calcoli, si preferisce Maria. Maria che, secondo l’analisi di Castoro, interpreta tre figure di madre: la madre del silenzio (e dell’omertà), la madre del candore (e dell’ambiguità), la madre della salvezza (e della potestà). E cura Maria, più che uno psichiatra, i problemi di alienazione, di ansia, di solitudine, di narcisismo ed emulazione, di neotribalismo. Mentre non ci si rende conto che lacrime, sorrisi, spogliarelli, baci, storie, tutto vomitato in pubblico, hanno un loro altissimo costo, e sono solo l’esternazione volgare dell’oscenità televisiva, che ha reso pubblico anche l’evento più fortemente privato e personale. Peggio della pornografia, che vende i corpi ma non le anime. Mentre qui si fa commercio dei sentimenti, e delle emozioni ad essi correlati. Ma si può credere che ci sia ancora un briciolo di autenticità in chi si vende per diventare un personaggio pubblico? Davvero siamo autorizzati a pensare che quegli amori di Uomini e Donne siano veri? Che i talenti di Amici o di Italia’s Got Talent siano autentici? Che in un programma come C’è Posta per Te ci siano ancora persone che si cercano sul serio e che non avrebbero mai avuto altro mezzo per incontrarsi e ritrovarsi nella vita? Che a spiare per mesi la vita di giovani conviventi nella casa del Grande Fratello qualcuno possa poi infine guadagnarci qualcosa? Deleuze racconta che le sue uscite culturali sono agite sempre in vista di un incontro. Quale tipologia di incontro ci prospetta questa tv? E, soprattutto, possiamo chiamare incontro questo impudico sciamare su tutto, senza niente realmente conoscere? Potrebbe, al più, essere l’espressione di una nuova forma di potere, direbbe Foucault, e noi gli daremmo ragione, ben sapendo che i detentori di questo totalitarismo della comunicazione non sono certo gli apparenti protagonisti che calcano la scena. Dietro le quinte ci sono ben altri esempi di divine maestranze e scenografie della loro scialba esistenza. E son questi che ne muovono i fili. Maria viene perciò accostata a ben altre figure di donne dell’antichità. Ipazia, ben rappresentata nel film Agorà, è una matematica e filosofa che paga con la vita la sua fede per la scienza. Scrive Castoro: “Quel che appare, in embrione, come l’avanzata indomabile della fede cattolica arriverà a diventare tutt’uno con le esigenze dell’Impero romano, e prefetti e vescovi stringeranno torbide alleanze pur di monopolizzare il potere che è, ormai, contemporaneamente, degli eserciti, degli apparati di stato e delle coscienze. La stessa Ipazia cadrà sotto la violenza folle di una tirannia che, in un micidiale sigillo marziale e ieratico, ha ormai distrutto quella meravigliosa voglia di interrogarsi liberamente sui modi della vita e le origini dell’universo. Il film testimonia come due opposte verità possano esistere solo nella tolleranza che ne sancisce, comunque e sempre, la diversità in codici, discorsi, sensibilità, oppure una, la più forte, esclude l’altra da ogni categoria di pensiero, e la costringe al silenzio, alla minoranza, o alla scomparsa definitiva. Tertium non datur, si potrebbe dire: o dialettica fra sistemi o dispotismo totalitario, ma due binari opposti di verità – come due conseguenziali di falsità -, non possono attivare nessuna previsione di comportamento, non rappresentano alcun valore guida, non creano nessuna architettura spazio-temporale comune. L’immaginario collettivo può essere striato, iridato, meticciato, ma quando diventa ordine statutario è legato a una meccanica che la cultura può, in vari momenti, intaccare, correggere, sovvertire. Che due orizzonti inconciliabili di “razionalità” si sovrappongano fino a non delineare nemmeno uno, si intreccino fino a minare le stesse basi della logica, si alternino fino a confondere o spaventare il pubblico che osserva, è cosa che accade solo col consolidamento della società dell’immagine tecno-spettacolare. Quella che lo stesso Michel Foucault chiamava “la rivalità degli uomini liberi”, la tensione delle visioni della vita e dei rapporti umani, intravedendo nella città ateniese quasi una patria originaria delle pratiche di soggettivazione, nell’odierno regno della finzione eletta a funzione di stupore e di controllo è esattamente il contrario: la pacificazione degli uomini in catene. Ovvero, la conseguenza spontanea, nemmeno guerreggiata, dell’individualità, dell’intimità, delle storie personali, delle verità effettuali a un immane processo di feticizzazione e falsificazione che non lascia più varchi per distinguere, non solo ciò che è giusto da ciò che è truffaldino secondo un’argomentazione di tipo etico, ma ciò che “accade” davvero da ciò che è illusione scenica, patologia dell’apparire, menzogna senza dramma. Il passaggio, insomma, da Ipazia a Maria è devastante. Uomini e Donne è un’ecatombe del senso. E l’ontologica differenza rispetto alla piazza delle idee e delle opinioni che era l’antica agorà si rivela appieno”.    La De Filippi è solo una dei tanti personaggi “salottieri” e “giudicanti” della nostra tv della piazza e del facile processo mediatico, in cui le parole sono catapultate in avanti, e utilizzate spesso a ferire l’altro, piuttosto che ad accarezzarlo e ad accoglierlo. Altro che compito educativo di cui parlava Popper, profetizzando gli attuali scenari del nulla…

Antonietta Pistone

Nota bibliografica        
Per questo articolo si rimanda alle letture di seguito:

1)Carmine Castoro, Maria De Filippi Ti Odio, Caratteri Mobili, Bari Dicembre 2011, (pagg. 200, euro 15, caratterimobili.it)
2)K. Marx, Il Capitale

Si rimanda inoltre a:

1)Agorà (film)
2)Intervista a Karl Popper sulla tv
3)Tutti i programmi televisivi citati, compresi quelli salottieri e giudicanti 

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