Giustizia conoscenza e felicità in Platone
Ho letto di recente una
pubblicazione per la didattica della scuola di Fabio Bentivoglio, docente di
storia e filosofia in un liceo di Pisa, e autore, tra gli altri, di un commento
guidato alla Repubblica di Platone, intitolato Giustizia Conoscenza e Felicità.
La sua stampa è un po’ datata, e risale al 1998, per una casa editrice di
Pistoia, la C.R.T. dove l’acronimo sta per Coscienza, Realtà, Testimonianza.
Ciononostante il libretto, di un centinaio di pagine, è un lavoro quanto mai
attuale, come lo sono i temi dell’opera più grande del filosofo Platone,
allievo di Socrate. E proprio dalla ingiusta morte del suo maestro, avvenuta
nel 399 A. C., prende spunto la ricerca filosofica de La Repubblica, con
l’intento di immaginare uno stato ideale, dove esista finalmente la Giustizia.
Ciò che si chiede, infatti Platone, anche per bocca dello stesso interlocutore
Socrate, è cosa sia la Giustizia, e come sia possibile costruire uno Stato
giusto.
Lo stile che Platone adopera nei
suoi lavori è quello dialettico, delle argomentazioni contrarie e contrapposte.
Quasi sempre nei dialoghi platonici è presente Socrate, che discute con i
sofisti. La qual cosa pone anche un problema interpretativo non facilmente
risolvibile dagli studiosi. Non si sa, infatti, se ciò che dice Socrate
corrisponde esattamente al suo pensiero, ed in questo caso Platone avrebbe
fatto da estensore e da cronista della filosofia del suo maestro, che non ha
lasciato nulla di scritto, prediligendo il dialogo come forma del filosofare; o
se non siano, alcuni di questi dialoghi, l’interpolazione del pensiero di
Socrate con quello di Platone che, nascondendosi sotto l’autorità dell’ideatore
del dialogo filosofico, sarebbe riuscito a far circolare più facilmente le sue
idee tra i lettori.
Certamente, la filosofia di
Platone, che pure riceve il suo incipit dal dialogo e dalla dialettica
socratica, acquisisce poi, nella fase matura dello sviluppo del suo pensiero,
delle caratteristiche e delle convinzioni che parrebbero assolutamente estranee
al pensiero di Socrate.
Soltanto l’arte del dialogo, e
dell’oralità della filosofia, pare resistere agli attacchi del tempo. E Platone
la custodisce intatta nel suo stile di scrittura, che rifiuta la precisione
trattatistica del monologo filosofico. Unitamente alla ricerca degli ideali,
che già Socrate aveva riconosciuto il fondamento della verità del filosofare,
contrapponendosi ai sofisti, che avevano sostituito il vero con l’utile.
Altra caratteristica del pensiero
platonico è il ricorso al mito, trattato in modo assolutamente diverso,
rispetto a quanto avevano fatto i narratori della mitologia del passato.
Costoro narravano nei miti vicende fantastiche e irreali, per spiegare, in
maniera poetica e facendo ricorso all’immaginazione e all’inventiva,
aspetti della natura e della vita che non erano ancora stati spiegati
razionalmente, attraverso la conoscenza scientifica del mondo. Laddove il mito
platonico assume una funzione filosofica ed educativa del popolo, al quale si
rivolge attraverso una narrazione metaforica che, sotto la parvenza di un
racconto facilmente comprensibile, nasconde il suo significato allegorico, con
le sue valenze critiche e filosofiche.
Due miti sono narrati nella
Repubblica. Il Mito della Caverna, noto a chiunque si voglia appena accostare
al pensiero platonico; e quello di Er, soldato morto in battaglia, e
successivamente tornato alla vita.
Entrambi i miti hanno un
significato reale che va ben oltre quello della pura narrazione fantastica dei
loro contenuti. Quello di Er vuole richiamare l’attenzione sull’importanza, e
la necessità, per Platone, di immaginare una vita immortale dell’anima che,
nella sua teoria della metempsicosi, segue un ciclo di reincarnazioni continue,
dopo la morte, per raggiungere la perfezione assoluta dello spirito. Si nota
qui la contaminazione del pensiero platonico con le teorie pitagoriche e con le
suggestioni dell’oriente buddhista.
Il Mito della Caverna, invece, è
un’allegoria del mondo reale, e della difficile missione del filosofo, che
giunge a rischiare la vita, quando prova a richiamare alla verità la massa del
popolo ignorante, incapace di distinguere le ombre dalle vere immagini delle
cose. Il riferimento a Socrate, morto ingiustamente per difendere le sue idee
fino in fondo, è d’obbligo, e si fa più evidente quando Platone vuol dire che
la missione del filosofo è quella di capire quando il barlume dell’apparenza
indichi che si tratta di ombre, imponendo al cercatore di verità di andare
oltre, di superare quel livello di cavernicolo, per abbeverarsi alla realtà
delle idee, rischiarate direttamente dalla luce del sole.
Vi è, poi, nella Repubblica la
ricerca di un ideale di Giustizia, di tipo politico e pedagogico. La concezione
platonica dello stato non accetta la democratizzazione del sapere e della
partecipazione popolare alla cosa pubblica. Nel pensiero del filosofo
grandeggia un’idea elitaria di filosofia e di politica, che non sono ambiti
aperti a tutti, dovendo essere piuttosto il campo di lavoro di menti
selezionate, che dimostrano di avere una naturale predisposizione al fare
filosofia. Non tutti hanno la capacità di prendersi cura della cosa pubblica,
sentendo la politica come scienza del bene comune. Solo il saggio, il filosofo
di professione, è in grado di discernere il bene dal male. Ed è giusto,
pertanto, affidare a chi è saggio il governo dello stato. Né si può aspirare a
diventare filosofi se sono filosofi i propri genitori. Perché il rispetto degli
innati temperamenti distingue gli uomini in tre categorie, corrispondenti alle
tre classi dello stato platonico: i governanti filosofi, che costituiscono la
classe aurea; i guardiani, che rappresentano la classe d’argento; i produttori,
o lavoratori, che sono la classe di bronzo. I primi sono filosofi, i secondi
sono soldati, i terzi umili lavoratori o produttori. Solo a questi è permesso
di godere di affetti e proprietà private, perché non hanno il governo dello
stato. Mentre ai governanti e ai guardiani è impedito il conflitto tra
interessi e affetti privati ed amministrazione della cosa pubblica. Perché la
felicità dell’uomo, e il governo dello Stato giusto, non hanno, per Platone,
nulla a che vedere con le ricchezze individuali. I genitori delle prime due
classi sociali, pertanto, dovranno lasciare i figli allo stato, che provvederà
ad educarli secondo le loro personali inclinazioni. Potrà, dunque, accadere,
che il figlio di un governante voglia essere un produttore. E che il figlio di
un semplice lavoratore diventi un guardiano dello Stato.
La Giustizia platonica è
soprattutto di tipo distributivo. Platone considera l’uguaglianza sociale
piuttosto come un fattore di natura economica. Tutti devono avere le stesse
possibilità. E lo Stato deve garantire a tutti i cittadini i beni comuni nella
stessa misura a ciascuno di essi.
La Giustizia diventa, così, la
somma di numerosi elementi, dove prevalga, sempre e comunque, l’ideale sul fatto
nudo e crudo. Essa è armonia della cooperazione, ricerca del bene comune,
equità distributiva; prevalenza dell’elemento politico su quello economico;
negazione del conflitto di interessi tra ricchezze private e bene dello Stato;
apertura ai valori piuttosto che ai fatti; fede negli ideali; attenzione alle
individuali propensioni ed educazione dei temperamenti di ciascuno, per
consentire ad ogni cittadino di esprimere il meglio per se stesso e per gli
altri; difesa dello Stato; educazione al sapere e trasmissione della tradizione
culturale del popolo; educazione e formazione dei giovani al rispetto delle
istituzioni; sospetto del diritto della maggioranza e del suo potere ad agire
per il bene comune; governo dei più saggi tra gli uomini; educazione e formazione
delle passioni individuali; rifiuto della paura della morte per l’affermazione
dei propri ideali; fede nella sopravvivenza delle idee oltre la morte
delle gambe sulle quali hanno camminato, e si sono fatte conoscere.
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