Io e Dio...
Dal Diario di Etty Hillesum
Propongo, di
seguito, alcune riflessioni tra le più interessanti tratte dal Diario di Etty
Hillesum. Si può notare un climax dai primi momenti, tra il 1941 e il 1942, che
segnano le tappe iniziali, del percorso del Diario, e che sono caratterizzati
da una quasi tranquilla quotidianità, fino agli ultimi periodi, tra il 1942 e
il 1943, in cui la riflessione si fa amara, e assume spesso toni politici,
relativamente alla persecuzione razziale contro gli Ebrei. Etty vive tutto
questo dall’Olanda, sua terra natale, dalla quale verrà poi deportata prima a
Westerbork e successivamente ad Auschwitz, dove morirà, vittima della Shoah, il
30 novembre del 1943.
Alcune riflessioni
personali, però, voglio farle, prima di consegnare alcuni stralci del suo testo
a voi lettori.
La vita quotidiana
di Etty, pur nell’orrore della Seconda Guerra Mondiale, e dello
sterminio, si svolge attorno ad alcuni cardini fondamentali. Le figure di
riferimento, sono sicuramente i suoi genitori e i due fratelli maschi, uno dei
quali, musicista, è costretto più volte a ricoveri ospedalieri in reparti
psichiatrici, per grave instabilità emotiva e labilità psichica. Ma vi sono poi
i due uomini più importanti della vita di Etty Hillesum: Julius Spier e Han. Il
primo è uno psicochirologo al quale lei si rivolge, con alcune amiche, per
farsi leggere la mano. Julius diventerà, poi, il più grande amico di Etty, e la
avvierà anche ad un lavoro di studio e di collaborazione con lui, che,
progressivamente, finirà col trasformare il loro rapporto in una vera e propria
relazione d’amore. Han è un uomo, molto più anziano di Etty, presso il quale la
Hillesum resterà a coabitare, per assisterlo. Anche con Han Etty intreccerà una
relazione amorosa, molto più intensa, sul piano fisico, rispetto a quella
intrapresa con Spier. Vi sono, poi, le letture e gli studi di russo, le
ripetizioni agli allievi. Ma l’autore preferito da Etty sarà Rilke, di cui
leggerà le lettere Su Dio, e con il quale si confronterà idealmente, in tutto
il Diario.
Etty non è una
filosofa di professione, come capita a molti che iniziano un percorso di vita
del tutto differente e, in apparenza, distante dalla filosofia, ma poi
approdano alla speculazione dalle esperienze personali più disparate. Etty è
un’Ebrea olandese che vive la targedia dell’Olocausto nazista, inzialmente come
esterna ai campi di concentramento, successivamente come deportata, per sua
stessa volontà. Perché non sente di meritare una sorte privilegiata, rispetto
agli altri Ebrei. Avrebbe potuto salvarsi, ma chiede ella stessa di vivere la
stessa condanna di tutti gli altri. Come Socrate, non cerca scampo alla morte;
non rifugio in una sorte diversa da quella che la Storia le ha già assegnato.
Difende le sue idee, la sua appartenenza, condividendo il destino crudele e
orribile della massa. Non sceglie di separarsene. E va fino in fondo. Sapendo
già che una delle possibilità è il non ritorno.
Come Hannah Arendt,
anche Etty non giustifica del tutto gli Ebrei, assolvendoli in nome di un
destino che la Storia aveva per loro già scritto. Magari non avrebbero comunque
evitato l’Olocausto, ma subire passivamente, arrendendosi, è già accettare lo
sterminio. Etty lo scrive in un passo del suo Diario, e Hannah Arendt lo
denuncia nella Banalità del Male, che commemora la condanna per impiccagione
del gerarca nazista Adolf Eichmann a Gerusalemme, cercando di comprendere i
suoi goffi tentativi di giustificazione degli orrori commessi, nell’aver
semplicemente fatto il proprio dovere e nell’aver eseguito solo ed unicamente
gli ordini che gli venivano dall’alto impartiti. Etty non fu giudicata per
questa convinzione, mentre la Arendt si attirò dietro le accuse di filonazista,
addirittura, ad ulteriore riprova che la Storia non sempre è giusta con i
suoi attori migliori. Quasi mai lo è, poi, con le donne.
Ad ogni modo, la
Storia non è mai “colpa” di Dio. Per Etty la colpa è sempre e solo unicamente
dell’uomo.
Le frasi più significative del Diario
Basterebbe
l’esistenza di un solo essere umano degno di questo nome, per poter credere
negli uomini, nell’umanità.
Chiunque
intraprenda un lavoro importante, deve dimenticare se stesso.
Quando certe
persone ti dicono di non voler sapere più nulla di un determinato periodo della
loro vita, di non voler più ricordare il passato, questo significa che in loro
c’è qualcosa che non va. Infatti, come le fondamenta in un edificio, il passato
è, insieme con tutto ciò che esso racchiude, il presupposto dello sviluppo
armonico, della costruzione solida, inespugnabile, della personalità. Se
qualcosa del passato subisce una negazione o l’oblìo, si crea una lacuna nella
vita psichica della personalità, che rende instabile e insicuro l’intero
edificio della nostra anima.
é pazzo, ma
almeno lui è pazzo in modo sano…
Dentro di me
c’è una sorgente molto profonda, e in quella sorgente c’è Dio. A volte riesco a
raggiungerla, più sovente essa è coperta da pietre e sabbia; allora Dio è
sepolto. Allora bisogna dissotterarlo di nuovo.
Quando ti
stai occupando di un lavoro, non devi pensare agli altri.
Nel momento
in cui l’idea secondo la quale una vita non vale niente assurgerà a verità
filosofica, mentre, in ogni istante, uomini muoiono a migliaia, allora
l’annientamento sarà completo.
Sono così
attaccata a questa vita.
Devi vivere
e respirare con la tua anima, e lavorare e studiare con la mente. Se vivi solo
attraverso il tuo intelletto, la tua sarà una ben misera esistenza.
Ci si libera
di tante cose, correndo.
Bisogna
rimanere aperti, non ci si deve chiudere in se stessi nei momenti più bui, né
affondare in essi pensando che sia un giorno perso, triste…ci sono centinaia di
svolte in una giornata, centinaia di sorprese, una veduta improvvisa, un senso
di inclusione.
La mia
consapevolezza di non essere capace di odiare gli uomini malgrado il dolore e
l’ingiustizia che ci sono al mondo, la coscienza che tutti questi orrori non
sono come un pericolo misterioso e lontano al di fuori di noi, ma che si
trovano vicinissimi e nascono dentro di noi. E perciò sono molto più familiari
e assai meno terrificanti. Quel che fa paura è il fatto che certi sistemi
possano crescere al punto da superare gli uomini e da tenerli stretti in una
morsa diabolica, gli autori come le vittime: così, grandi edifici e torri,
costruiti dagli uomini con le loro mani, s’innalzano sopra di noi, ci dominano,
e possono crollarci addosso e seppellirci.
E ora sembra
che gli Ebrei non potranno più entrare nei negozi di frutta verdura, che
dovranno consegnare le loro biciclette, che non potranno più salire sul tram né
uscire di casa dopo le otto di sera.
Non possono
farci niente, non possono veramente farci niente. Possono renderci la vita un
po’ spiacevole, possono privarci di qualche bene materiale o di un po’ di
libertà di movimento, ma siamo noi stessi a privarci delle nostre forze
migliori col nostro atteggiamento sbagliato: col nostro sentirci perseguitati,
umiliati e oppressi, col nostro odio e con la millanteria che maschera la
paura. Certo che ogni tanto si può essere tristi e abbattuti per quello che ci
fanno, è umano e comprensibile che sia così. E tuttavia: siamo soprattutto noi
stessi a derubarci da soli.
Trovo bella
la vita, e mi sento libera. I cieli si stendono dentro di me come sopra di me.
Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore. La vita è
difficile, ma ciò non è grave.
Dobbiamo
cominciare a prendere sul serio il nostro lato serio, il resto allora verrà da
sé: e “lavorare a se stessi” non è proprio una forma di individualismo
malaticcio. Una pace futura potrà essere veramente tale solo se prima sarà
stata trovata da ognuno in se stesso – se ogni uomo si sarà liberato dall’odio
contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest’odio e
l’avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore, se non è
chiedere troppo.
Lo amo tanto
quando il sole splende come oggi, molto più di quando fa freddo…
Dio non è
responsabile verso di noi, siamo noi ad esserlo verso di lui. So quel che ci
può ancora succedere. Adesso io sono separata dai miei genitori e non li posso
raggiungere, anche se si trovano a due ore di viaggio da qui: ma so esattamente
in che casa abitano, so che non patiscono la fame e che sono circondati da
molte persone ben disposte verso di loro. E anche loro sanno dove sto io. Ma
potrà venire un tempo in cui non saprò niente, e i miei genitori saranno
deportati e moriranno miseramente, chissà dove: so che può succedere.
Le ultime
notizie dicono che tutti gli ebrei saranno deportati dall’Olanda in Polonia,
passando per il Drenthe. E secondo la radio inglese, dall’aprile scorso sono
morti 700.000 ebrei, in Germania e nei territori occupati. Se rimarremo vivi,
queste saranno altrettante ferite che dovremo portarci dentro per sempre.
Eppure non
riesco a trovare insensata la vita. E Dio non è nemmeno responsabile verso di
noi per le assurdità che noi stessi commettiamo: i responsabili siamo noi! Sono
già morta mille volte in mille campi di concentramento. So tutto quanto e non
mi preoccupo più per le notizie future: in un modo o nell’altro, so già tutto.
Eppure trovo questa vita bella e ricca di significato. Ogni minuto. E resterò a
scrivere a questa scrivania fino all’ultimo minuto e a credere in ogni poesia
che leggerò…l’allievo…sta arrivando.
La prossima
settimana, partenza all’una e mezzo di notte; e il viaggio in treno sarà
gratis, sì proprio gratis, e non si possono portare animali domestici – così
era scritto in quell’ordinanza. Inoltre, bisogna portarsi le scarpe da lavoro e
due paia di calze e un cucchiaio, ma niente oro e argento e platino, quello no,
sì invece la fede, commovente, quella si può ancora tenere. E io non mi porto
nessun cappello, diceva F., ma un berretto, quello sì che andrà bene.
Spesso la
gente si agita quando dico: non fa poi molta differenza se tocca partire a me o
a un altro, ciò che conta è che migliaia di persone debbano partire. Non è che
io voglia buttarmi tra le braccia della morte con un sorriso rassegnato. Ma è
il senso dell’ineluttabile e la sua accettazione, la coscienza che in ultima
istanza non ci possono togliere nulla. Non è che io voglia partire ad ogni costo,
per una sorta di masochismo, o che desideri essere strappata via dal fondamento
stesso della mia esistenza – ma dubito che mi sentirei bene se mi fosse
risparmiato ciò che tanti devono invece subire. Mi si dice: una persona come te
ha il dovere di mettersi in salvo, hai tanto da fare nella vita, hai ancora
tanto da dare. Ma quel poco o molto che ho da dare lo posso dare comunque, che
sia qui, in una piccola cerchia di amici, o altrove, in un campo di
concentramento. E mi sembra una curiosa sopravvalutazione di se stessi,
quella di ritenersi troppo preziosi per condividere con gli altri un
“destino di massa”.
L’inferno di
Dante, al confronto, è una frivola operetta.
L’uomo
occidentale non accetta il “dolore” come parte di questa vita: per questo non riesce
mai a cavarne fuori delle forze positive.
Ogni
violenza nel mondo ha delle conseguenze, come ogni azione. Esistiamo per
prendere su di noi un po’ del dolore del mondo offrendo il nostro petto, non
per moltiplicarlo, facendo a nostra volta violenza.
So che lei
soffre, e io soffro con lei. Sia indulgente con questo dolore, ed esso sarà
indulgente con lei. I desideri e la collera lo accrescono; con la dolcezza esso
si addormenta come un bambino.
La cosa più
deprimente è sapere che quasi mai, nelle persone con cui lavoro, l’orizzonte
interiore si amplia in seguito alle sofferenze che quest’epoca infligge. Non
soffrono neppure in profondità. Odiano, e sono ciecamente ottimisti se si
tratta della loro piccola persona, e sono ancora ambiziosi per il loro piccolo
impiego; è una gran porcheria e ci sono dei momenti in cui mi perdo
completamente d’animo e vorrei abbandonare la testa sulla macchina da scrivere
e dire: non posso più andare avanti così. Ma poi vado avanti, e imparo sempre
qualcosa sugli uomini.
Bisogna
essere sempre disposti a rivedere la propria vita, a ricominciare tutto daccapo
in un luogo diverso.
“Temprato”:
distinguerlo da “indurito”.
In me non
c’è un poeta, in me c’è un pezzetto di Dio che potrebbe farsi poeta. In un
campo deve pur esserci un poeta, che da poeta viva anche quella vita e la
sappia cantare. Di notte, mentre ero coricata nella mia cuccetta, circondata da
donne e ragazze che russavano piano, o sognavano ad alta voce, o piangevano
silenziosamente, o si giravano e rigiravano – donne e ragazze che dicevano così
spesso durante il giorno: “non vogliamo pensare”, “non vogliamo sentire,
altrimenti diventiamo pazze” – a volte provavo un’infinita tenerezza, me ne
stavo sveglia e lasciavo che mi passassero davanti gli avvenimenti, le fin troppe
impressioni di un giorno fin troppo lungo, e pensavo: “Su, lasciatemi essere il
cuore pensante di questa baracca”. Ora voglio esserlo un’altra volta. Vorrei
essere il cuore pensante di un intero campo di concentramento. Sono coricata
qui con tanta pazienza e di nuovo calma e già mi sento assai meglio; leggo le
lettere di Rilke Su Dio e ogni sua parola è carica di significato per me; avrei
potuto scriverle io stessa, se le avessi scritte io le avrei scritte così e non
diversamente. Mi sento anche la forza di partire, non penso più a far progetti
e a correre rischi, andrà come andrà e sarà per il meglio.
Siamo
rimasti solo Dio e io. Non c’è più nessun altro che mi possa aiutare. Ho delle
responsabilità, ma non me le prendo veramente: scherzo ancora troppo e sono
indisciplinata. Non mi sento affatto impoverita, ma ricca e in pace. Siamo
rimasti solo Dio e io. Buona notte.
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