A Maria Tuinzing
Dopo la scrittura del Diario, Etty Hillesum scrisse le Lettere, tra il 1942 e il 1943.
Tra le tante Lettere di Etty, ce ne sono alcune particolarmente significative, che descrivono il modo in cui si trascorrevano le giornate nel campo di concentramento di Westerbork.
Tra le tante Lettere di Etty, ce ne sono alcune particolarmente significative, che descrivono il modo in cui si trascorrevano le giornate nel campo di concentramento di Westerbork.
In quella che ho scelto, Etty esprime, invece, soprattutto i suoi stati d'animo, e le sue preoccupazioni e paure, relativamente alla deportazione dei suoi genitori e di suo fratello Mischa, il più psichicamente fragile dei tre Hillesum.
Nelle righe della missiva, indirizzata all'amica Maria Tuinzing, Etty riferisce in particolar modo delle sue ansie su un possibile trasferimento in Polonia, ad Auschwitz, dove, in effetti, saranno poi deportati lei, suo fratello Mischa, e i suoi genitori, e lì moriranno, qualche tempo dopo, nel 1943.
Maria, ciao,
a decine di migliaia sono già
partiti da questo luogo, vestiti e nudi, vecchi e giovani, malati e sani – e
io ero ancora in grado di vivere e pensare e lavorare ed essere lieta. Adesso
anche i miei genitori dovranno partire, se non questa settimana per virtù di un
qualche miracolo, certamente la prossima – e io devo imparare ad accettare
anche questo. Mischa vuole accompagnarli e mi sembra che debba farlo, perderà
la testa se li vedrà partire. Io non lo farò, non posso. È più facile pregare per
qualcuno da lontano che vederlo soffrire da vicino. Non è per paura della
Polonia che non voglio seguire i miei genitori, ma per paura di vederli
soffrire. E dunque, anche questa è
viltà. La gente non vuole riconoscere che ad un certo punto non si può più fare, ma soltanto essere e accettare. Io
ho cominciato ad accettare già da molto tempo, ma si può farlo solo per se
stessi e non per gli altri, ed è per questo che sto passando un momento
terribilmente difficile, qui. La mamma e Mischa vogliono ancora fare qualcosa e
mettere il mondo sottosopra, e io sono del tutto impotente di fronte al loro
atteggiamento. Io non posso fare nulla, non l’ho mai potuto, posso solo
prendere le cose su di me e soffrire. In questo consiste la mia forza, ed è una
grande forza – ma per me stessa, non per gli altri. A papà e mamma hanno negato
il trasferimento a Barneveld, l’abbiamo saputo ieri. Devono tenersi pronti per
partire con il convoglio di martedì. Mischa vuole andare dal comandante e
dirgli che è un assassino, dovremo tenerlo d’occhio in questi giorni. Papà è
apparentemente molto tranquillo. Sarebbe però stato distrutto in pochi giorni
se fosse rimasto nella grande baracca e se non gli avessi trovato un posto
all’ospedale, ma anche lì la vita sta diventando più o meno invivibile per lui.
È completamente indifeso e non è in grado di cavarsela. Le mie preghiere non
sono come dovrebbero. So bene che bisogna pregare per gli altri, perché trovino
la forza di sopportare ogni cosa. Invece io dico sempre: Signore, fa che duri il
meno possibile. E così sono paralizzata in tutte le mie azioni. Da un lato
vorrei preparare i loro bagagli nel modo migliore, dall’altro so che tanto
glieli porteranno via – ne siamo sempre più sicuri -, e dunque perché
trascinarsi dietro tutto quel peso? Qui a Westerbork ho un amico. Era sulla
lista dei deportati, la settimana scorsa. Quando sono andata da lui era diritto
come un fuso, il volto calmo, lo zaino pronto accanto al letto, non abbiamo parlato
della sua partenza, mi ha letto diverse cose che aveva scritto ed abbiamo
ancora un po’ filosofato. Non ci siamo resi le cose difficili con il nostro dolore
per l’imminente distacco, abbiamo riso e ci siamo detti che ci saremmo rivisti.
Eravamo ambedue in grado di sopportare il nostro destino. Ed è proprio questa
la cosa che fa disperare, qui: la maggior parte delle persone non è in grado di
sopportare il proprio destino e lo scarica sulle spalle altrui. E sotto quel
peso, non sotto il proprio, si potrebbe anche soccombere. Io mi sento in grado
di affrontare il mio destino, ma non quello dei miei genitori. Questa è l’ultima
lettera che posso scrivere, per ora. Oggi pomeriggio dobbiamo consegnare i
nostri documenti di identità e diventiamo ufficialmente “residenti del campo”.
Perciò dovrai avere un po’ di pazienza con le mie notizie. Forse riuscirò a
contrabbandare una lettera prima o poi. Le tue due lettere sono arrivate. Ciao
Maria – amichetta mia -.
Westerbork, sabato 10 luglio 1943
Etty
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