Cosa Resta del Padre?




Cosa Resta del Padre? È il titolo di un lavoro di Massimo Recalcati, pubblicato nel 2011. Ma è anche la domanda che attraversa tutto il libro, dalla prima all’ultima pagina.

La ricerca dello psicanalista lacaniano indaga su ciò che rimane della paternità, nell’epoca ipermoderna, in cui si assiste all’evaporazione del padre, per usare un’espressione di Lacan.

E chiedendosi se resti qualcosa di questa figura così imponente, nell’inconscio di ciascuno di noi, finisce poi per rispondere che la paternità è indispensabile all’essere umano.

E lo è, perché ognuno può strutturare il proprio sé psichico solo nel riconoscimento, a partire dal nome del padre, che segna un’appartenenza, dalla quale ci si deve distinguere, per crescere come individui adulti, ma da cui non si può prescindere, perché un albero senza radici smette di esistere, e muore.

Dunque, il riconoscimento, attraverso il nome, e l’appartenenza al vissuto della storia familiare. Storia biologica, mappata dal DNA. Ma soprattutto, storia esistenziale. Che rende il figlio erede di una testimonianza di vita attraverso il suo genitore.

Il padre è indispensabile nell’evoluzione del figlio, perché interdice, attraverso la rappresentazione dell’impossibilità dell’incesto con la propria madre. Tracciando i limiti della possessività materna, e del bisogno di dipendenza del figlio. A ben vedere, il suo ruolo psicologico è inalienabile dalla paternità biologica, perché è solo il padre che ha concepito il figlio, insieme alla di lui madre, che assume su di sé questo insostituibile compito naturale dell’interdizione all’impossibilità dell’incesto. Coniando il primo “no”, originando la prima frustrazione, attraverso la castrazione simbolica del “non tutto è possibile”, e proteggendo così il vuoto, la faglia, l’apertura incolmabile dell’umanità, che orienta il figlio verso altre possibilità, poste al di fuori del rassicurante porto che la famiglia rappresenta, dove si viene accolti non per il fatto di essere qualcuno, o di fare qualcosa, ma per il semplice motivo di esistere. Il padre ha il compito di coltivare il desiderio, la passione dell’anima per il non-ancora del figlio.

Il padre libera il figlio, e lo sottrae all’innamoramento materno, mostrandogli che “non può” avere la madre, non può avere tutto, non può sapere tutto, non può essere tutto.

Il padre, rappresentando, come Freud sosteneva, il principio di realtà, è la Legge del divieto e della censura, il super-io, il “no” della frustrazione, la castrazione che spinge ad uscire dal nido accogliente della famiglia, per rivolgersi al di fuori di essa. Per sondare la possibilità sulla base del desiderio.

Il padre apre gli orizzonti della possibilità e del desiderio di essere, sapere, possedere, divenire. Ma solo dopo aver detto il suo no, la sua interdizione sull’impossibilità dell’incesto.

La frustrazione rappresenta il limite. Il rifiuto, conseguente, del piacere immediato, in vista di un bene più maturo, attraverso il sacrificio e il lavoro.

Solo l’interdizione che mostra l’impossibilità del piacere disinibito di Edipo, ma anche dell’amore smisurato di sé di Narciso, che pretendono di poter fare a meno del padre, e dei suoi frustranti e castranti “no”, permette al figlio di diventare adulto, coltivando il desiderio. Mettendosi, come Telemaco, a scrutare l’orizzonte, in attesa che il mare ci riporti il padre, esiliato, migrante. Il padre che non ha più nulla, perché le sue speranze sono state disattese. E il figlio è il suo tutto, a tal punto da diventare la somma delle possibilità. Proprio come il figlio non è niente, senza il padre. Perché senza il padre si è come un ramo spezzato dalla tempesta, come una foglia spazzata via dal vento, come un arboscello sradicato, e senza storia.

Telemaco coltiva, invece, attraverso la speranza nel ritorno del padre, il desiderio, che è la passione per ciò che vuole diventare ed essere. Passione che va coltivata, a patto che quei limiti dell’interdizione vengano osservati, e assunti come la misura di una distanza, di un confronto possibile, come punti di riferimento imprescindibili.

Così, il padre offre al figlio una testimonianza indispensabile, che diventa amore per la vita stessa; passione per il proprio sé ideale. Argine massiccio contro le varie forme di devianza, che possono celarsi nell’uso di sostanze stupefacenti, nell’abuso di alcool, nella depressione psichica, fino al disagio mentale di tipo psicotico, e schizofrenico (nei casi più gravi).

Perché la scomparsa del padre corrisponde alla fine di tutti gli Ideali. Dopo l’evaporazione del padre resta solo melma. Un mondo privo di testimonianze. Un’esistenza vuota e senza valori. Dove tutto diventa ricerca ossessiva del piacere edonistico immediato.

Perché si può essere eredi solo cercando il padre, solo imparando ad ereditare ciò che resta del padre. Che non sono le case, e i soldi. Anche se l’appartenenza passa anche attraverso le case e i soldi, che il padre ha realizzato dopo una vita di lavoro e di sacrificio. Perché essi testimoniano, indirettamente, la sua esistenza, dedita al lavoro e alla famiglia.

Ma si diventa eredi, soprattutto, di una testimonianza. La testimonianza del padre. E della sua vita.

Nell’epoca ipermoderna, dell’evaporazione del padre, invece, è proprio la testimonianza che manca. I padri sono assenti fisicamente, o psicologicamente, dalla vita dei loro figli. Disinteressati al loro vissuto, perché incapaci di sostenerlo. I padri si comportano, spesso, come adolescenti, che vorrebbero essere amici dei loro stessi figli; alcuni padri sono violenti. Tutti questi padri lasciano al figlio la testimonianza del vuoto, dell’assenza, di una mancanza, che pretende di essere colmata. E che, spesso, viene riempita di surrogati: il cibo, il denaro, il piacere sfrenato, la droga, l’alcool, la violenza, la delinquenza, le devianze e la criminalità.

Il padre che non è stato capace di essere un testimone, per il proprio figlio, perché invece di amarlo lo ha emulato, mettendosi in competizione con lui; o lo ha sempre sentito come un fastidio, e un impedimento, lascia in eredità la sua “merda”, scrive testualmente Recalcati. E, ciò che fa più pena, è il fatto che il figlio si attacchi a quel putrido fango maleodorante. Che lo ami. Perché in quello, sebbene in un modo sbagliato, ottiene il riconoscimento paterno. Senza il quale non si è nulla, e si muore.
Dopo la sua morte fisica, il figlio ricorda il padre idealizzandolo, facendolo rivivere in ogni parola che il genitore gli ha detto, mentre era in vita. Ecco perché è così importante dire ai figli solo e sempre parole di amore, e mai di distruzione, di violenza e di odio. Perché queste ultime minano la sicurezza interiore, lacerano emotivamente. Inducono a credere di essere melma, fango, uno scarto del padre. E demoliscono l’autostima. Un genitore deve avere sempre presente che il figlio costruisce e fa crescere il suo proprio sé sull’immagine che il padre gli rimanda. Il padre ha il potere immenso di ricreare psichicamente il figlio, ma anche di ucciderlo interiormente.

Le vere testimonianze, i veri padri, i buoni genitori, non sono mai ideali. Altrimenti rischiano di diventare autoritari padri padroni. Questi “educatori” separano la Legge dal cuore, e diventano gli amministratori di lager familiari, che si comportano come gerarchi nazisti, dove i figli sono amati solo se sono perfetti, come li vuole il padre. Altrimenti vengono umiliati e offesi a parole, o addirittura picchiati e feriti fisicamente. Ogni educatore che voglia seguire solo la Legge, dimenticandosi del cuore, è comunque, e sempre, un violento. Buoni genitori non sono nemmeno quegli adulti che pretenderebbero di diventare amici dei figli, e di comportarsi e vivere come adolescenti, perché i loro atteggiamenti generano in risposta l’anarchia, il disinteresse, e la disaffezione per la Legge, e le sue regole normative.

Bravi genitori sono quelli che vivono la loro stessa vita come una testimonianza da offrire, nel bene e nel male, in dono ai loro figli. Sono quelli che, lungi dal ritenersi perfetti, mostrano ai figli la loro fragilità, i loro dubbi, le loro insicurezze. Senza demandare ad altri il loro ruolo educativo. Sono quelli che, nonostante tutto, sanno ancora dire “no” restando accanto ai figli, per sentire il loro dolore, la frustrazione, l’angoscia di separazione. Lo smarrimento dell’incertezza. Sono coloro i quali non indicano, con sicurezza, una strada da percorrere. Perché quella strada non la sanno. Non progettano la vita dei figli a tavolino. Non pretendono di riempire i buchi delle loro teste. Sono quelli che preservano il vuoto, la faglia, l’apertura, come momento, indispensabile, di crescita. Sono quelli che rispettano i tempi dei loro figli, anche attraverso il silenzio, l’attesa, l’assenza. Alternando il silenzio alle parole; l’attesa all’incitamento e alla scommessa; l’assenza alla presenza, sempre rispettosa degli spazi altrui, e mai invadente e intollerante. Se non nel saper dire “no, perché no”. Perché un buon padre non deve necessariamente spiegare l’interdizione.

I bravi genitori sanno attendere con pazienza che i frutti della testimonianza maturino lentamente. Nella consapevolezza che non è sicuro che li vedranno. Ma con la certezza appassionata che, prima o poi, qualcuno li ammirerà sbocciare, in tutta la loro bellezza. Perché i bravi genitori hanno fede. Anche nell’essere umano che essi stessi coltivano.

E sanno insegnare, in un’epoca senza padri, senza dei, e senza religione, il valore della preghiera, che custodisce “l’evocazione di un Altro che non si può ridurre alla supponenza del nostro sapere…un modo per preservare il non tutto, per educare all’insufficienza, all’apertura al mistero, all’incontro con l’impossibile da dire”.

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