Malessere giovanile. Cosa fare?




Quando ero ragazza, avevo due compiti ben precisi: studiare, da brava studentessa; ed essere una figlia educata e rispettosa dei miei genitori. Ciò voleva dire essenzialmente obbedire loro, anche se non ero proprio sempre d’accordo, e, comunque, cercare, in ogni caso, di assecondare i loro desideri, tenendo conto dei loro consigli di persone più mature, perché adulte, e con l’esperienza che io certamente non potevo vantare di avere. Perché, a quell’epoca, i bambini facevano i bambini, e gli adulti facevano gli adulti.

Noi ragazzi della generazione degli anni sessanta, avevamo, generalmente, pochi spazi di manovra ulteriori. Sulla base di questi semplicissimi parametri educativi, eravamo giudicati da insegnanti e genitori. O eravamo alunni diligenti e, unitamente, anche figli rispettosi, o entravamo a fare parte, immediatamente, della schiera delle cosiddette pecore nere. Figli riusciti male, viti storte da raddrizzare.

L’educazione del passato si fondava su principi rigidi ed impositivi, che non si potevano discutere, e sui quali non era lecito fermarsi a ragionare.  Il presupposto di partenza era che i genitori e gli insegnanti avessero sempre ragione, anche quando avevano torto. Perché l’autorità del più anziano era imprescindibile, e veniva data per acclarata, come una sorta di pregiudiziale da cui partire, per intavolare il discorso educativo. Discorso che era di tipo sostanzialmente trasmissivo, in cui insegnanti e genitori impartivano, per lo più, delle istruzioni, alle quali ciascuno doveva attenersi, fidandosi ciecamente del dictat degli adulti.

La pedagogia autoritaria non è certamente tra le più democratiche, e pecca anche per carenza di spirito critico, ma aveva il pregio, se così si può dire, di presentare ai giovani dei solidi punti di riferimento negli adulti, che erano generalmente presenti, e che facevano pesare con forza il loro essere dentro la relazione educativa. Il fatto che i loro principi e valori fossero indiscutibili metteva i giovani al riparo dalle loro fragilità emotive perché, nonostante la fluttuante agitazione adolescenziale, essi sapevano bene di poter trovare in quelle figure un riparo alle angosce della loro età.

Col passare del tempo, questo modello pedagogico è stato messo in discussione dai sostenitori dell’idea democratica, sostenendo che i giovani devono essere ascoltati, e che gli adulti devono anche sapersi fare orientare, nel discorso educativo, da quelli che sono i loro desiderata. I motivi ispiratori di questa pedagogia risiedevano nel tentativo di intrecciare una relazione dialogata con le nuove generazioni, senza dover necessariamente far esplodere il conflitto tra vecchi e giovani.

Nel tempo, il tentativo di stabilire uno scambio dialogico, ha finito, di fatto, per indebolire il ruolo dell’educatore che, nell’intento di ascoltare i giovani, è divenuto, pian piano, il confidente, e l’amico dei propri figli, o degli alunni. Complicando, così, la relazione pedagogica che, spostata sul piano della equivalenza simmetrica degli interlocutori, sminuisce le figure autorevoli, e autoritarie, degli educatori in senso stretto.

I genitori che si mettono ad ascoltare i figli, per poi fare come quelli dicono, scendono sul loro stesso piano, perdono potere e autorevolezza, e smettono di svolgere il compito educativo, svilendo la missione nel tentativo, anche un po’ bislacco, di dover trovare ad ogni costo un accordo dialogato e amicale.

Stessa cosa accade a quegli insegnanti che temono l’imposizione del dictat, e aggirano l’ostacolo del “no”, che non vogliono pronunciare, per non farsi nemici gli allievi, facendo perdere di peso e di incisività alla loro azione pedagogica.

La scomparsa dei padri, che Massimo Recalcati lamenta nelle sue pubblicazioni più recenti, si riferisce proprio a questa acclarata incapacità degli adulti di opporre, allo smarrimento dei giovani, una forte presenza educativa, capace di dettare le sue imposizioni, senza dare spiegazioni, e di dire i suoi “no”, quando sia necessario, senza accumulare sensi di colpa.

I giovani richiedono agli adulti quella stabilità emotiva che non possiedono. Non devono, perciò, trovare risposte fluttuanti alle loro vitali domande di senso.

Quando gli adulti smettono di educare, nel senso classico della parola, i giovani si sentono smarriti davanti al nulla che la vita gli prospetta. Possono inizialmente fingere di gioire, per il fatto di sentirsi assecondati, ma sanno fin troppo bene, dentro di loro, che il compito degli adulti non è quello di essere loro amici, ma quello di orientarli, di indicare dei riferimenti, di opporre dei limiti.
La norma, la legge, il dictat, il “no” del genitore, sono, inizialmente, frustranti. Ma non è necessario che i giovani li debbano capire ad ogni costo. Possono anche rimanere nella loro inaccessibile nebulosità. L’importante è rispettare la regola. Perché così è. C’è tempo per capirla.

Il correre sempre in aiuto dei giovani, da parte dei genitori e degli insegnanti, non è necessariamente un fatto positivo e risolutivo della crisi. Spesso, nell’illusione di fare bene, si finisce per causare altro malessere.

Ansia, attacchi di panico, stress, insonnia, bulimia, anoressia, sono solo alcuni dei sintomi di questa inadeguatezza degli adulti a rispondere in modo chiaro e direttivo alle domande dei giovani. Laddove essi trovano il vuoto, anche se un vuoto complice, smettono le loro fragili certezze, e sono invasi dal baratro del non senso, e dello smarrimento assoluti.

Se questi sono i sintomi di un malessere radicato nelle nuove generazioni, queste sono anche le loro uniche forme espressive, le sole parole che i giovani conoscono per raccontare il loro disagio. Disagio che, spesso, gli adulti pensano di poter risolvere incitandoli ad abbandonare la nave, aggirare l’ostacolo, cercare vie più facili, strade meno faticose ed in salita di quelle percorse fin qui. Niente di più sbagliato. Perché nei giovani si sedimenterà la certezza di non avercela fatta. E quello smacco, quella sconfitta, se la porteranno dentro per sempre.

Il malessere si risolve non attraverso l’evitamento, che è un’ulteriore forma di disturbo psichico, ma colmando il vuoto, la faglia, l’apertura del non detto. Dialogando, appunto, ma non per avere sempre ragione, come pretenderebbe di fare certa pedagogia libertaria e demagogica. Dialogando, piuttosto, per mettersi in discussione, insieme ai genitori e agli insegnanti. Perché gli adulti sono i primi a sbagliare, quando presumono di conoscere strade sicure, per mettere i loro figli e discenti al riparo dal dolore, dallo smacco, dal fallimento, dalla caduta e dall’errore. Mentre ci sono rinascite che hanno inizio proprio dall’inciampo, dalla faglia, dall’apertura, che segna il limite del baratro, della caduta, ma anche del volo possibile, e della vita.

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